Concorso

The Square di Ruben Östlund

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Christian (Claes Bang) è il direttore narciso di un museo di arte contemporanea, figura non troppo dissimile da alcuni dei superdirettori nominati negli ultimi anni dal Mibact in Italia, anche se non è difficile immaginarlo, con maggiore autonomia economica e pratica, si direbbe, e con una presunta intenzionalità politica che travalica l'idea nostrana, equivocabile, di patrimonio come giacimento culturale. All'inizio, in un'intervista con la giornalista americana Anne (Elizabeth Moss), sveglia il giusto ma forse estranea al sistema dell'arte, discute la questione, ricorrente e però mai davvero risolta né risolvibile, sullo statuto dell'opera d'arte nella contemporaneità, lasciandola perplessa sulla possibilità che anche la sua borsa, ricollocata in uno spazio altro, possa divenire opera. L'importanza dello spazio è ribadita dal fatto che, con i soldi di una sottoscrizione pubblica, Christian compra The Square, un intervento urbano concettuale che, smantellati i monumenti dell'ancien régime (figurativi e monarchici), segata una sezione quadrata nel porfido della piazza antistante il museo, e riempitone il profilo con un materiale luminescente, crea uno spazio virtuoso, "un santuario di fiducia e altruismo, al suo interno tutti condividiamo uguali diritti e doveri", uno spazio, quindi, la cui determinazione rispetto al mondo circostante è delegata al contorno, essendo il motto di cui sopra, inciso su una targa col Quadrato rigorosamente in prospettiva, un invito alle regole base della democrazia, un contorno che non riesce, pur trattandosi di un intervento provocatorio, a essere l'aura perduta dell'opera, né tantomeno un ring brechtiano (o le scenografie pavimentali di certo Von Trier): in qualche misura, il film sembra proprio inseguire la quadratura del cerchio.

In fondo l'aspirazione dell'arte ad assurgere ad un ruolo politico, la tentazione di restituire allo spazio urbano un valore ideale non può che rievocare le città ideali del rinascimento pittorico italiano, i cui esempi più illustri sono e restano in eterno disabitati, così come gli esperimenti urbanistici coevi rimanevano imbrigliati nelle contraddizioni di un pensiero immaturo; e la tentazione di abitare gli spazi dell'opera d'arte, più nettamente borghese, rimanda in parallelo ai committenti, disguised e non, di certe opere di Jan Van Eyck e di lì a scendere, col signor Van der Dingen che (come Carmelo Bene) appare alla Madonna, o è raffigurato in veste di Santo ai piedi del crocifisso, ritratti cristallini e cristallizzati di una smaniosa ambizione all'immortalità. Ora che, nella selfie age ognuno può autoritrarsi, o creare una rappresentazione (non a caso vengono in mente i tanti musei che creano uno spazio dove si invitano i visitatori a immortalarsi, per lo più in pose idiotissime), diventa gesto politico, performance fuori controllo tutto quello che avviene fuori dal Quadrato, fuori dal luogo deputato, o lo invade sovvertendone la logica preordinata. È tale il colpo (stra)ordinario con cui due borseggiatori sottraggono a Christian portafogli e telefono, che dà il via a una caccia dove si perdono per strada proprio il rispetto di quanto proclamato dal motto. Così come il crescendo di porcate strepitato da un avventore con la sindrome di Tourette alla conferenza di Julian (Dominic West): la parola fuori controllo per i riflessi di un trauma infantile, stocastica e perturbante, opposta alle provocazioni banali di un artista in pigiama, giacca e Van's.

È invasione degenerata quella documentata dal video, subito virale, che mostra un bambino lasciato dentro al Quadrato a disperarsi mentre si avvinghia al gatto, strapazzandolo. Esplosione. Perché la nuova piazza, la nuova agorà è il sistema virtuale e non virtuoso dei social, e la provocazione genera discussioni che non sono, in ultima analisi, altro che rumore di fondo, (anti)monumento all'impermanenza, e il Quadrato, nella sua scialba a-dimensionalità è diventato innesco di un thread di anarchia demenziale.

È invasione, deriva, la performance, decisamente infinita, di Oleg, l'artista convinto di essere una scimmia, durante il diner placé dei trustees del museo, che sembra lì a ricordarci come sia un conflitto che non sempre quadra anche quello tra quella forma tipicamente transitoria e la sua riproducibilità filmica. E però, allo stesso tempo il film di Ruben Östlund, in qualche modo in parallelo alle ambizioni del suo protagonista, si alimenta, nella messinscena, proprio di tecniche da performance e da flash mob situazionista, creando brani di un perpetuum mobile di massa dalla sincronicità vagamente alienata, come già faceva nell'indimenticabile scena conclusiva di Force Majeure, e che, non sarò il primo a dirlo, sembrano in questo caso un omaggio diretto a Roy Andersson: un moto centrifugo, perlomeno rispetto all'attenzione dello spettatore, che non sempre sembra essere stato arginato dalla cordata di produttori e coproduttori che hanno supportato la sua genesi.