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A Hidden Life di Terrence Malick

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Resistere al male. Anche quando diventa legge e consuetudine, anche se lo vuole lo Stato o la Chiesa, e lo spirito del tempo rischia di travolgere la vita delle persone che ami (e toglierti la tua). Se siamo liberi, possiamo dire “no”. Anche all'Eden, se necessario. Perché il cinema di Terrence Malick continua a evocare quell'armonia perduta, quel tempo fuori dal tempo in cui «la vita era più semplice» e l'uomo viveva (vivrà?) in armonia con la natura. Qualcosa che assomiglia a Radegund, villaggio austriaco in cui è nato e cresciuto Franz Jägerstätter, alla cui storia è ispirato Hidden Life. Anche se è evidente il fatto che quell'arcadia – incarnata in immagini che allargano il cuore e riposano la mente, che abbracciano l'erba, il cielo, le montagne scolpite dalla luce – non sia realtà storica o documento, ma un'idea, un sentimento, un approdo possibile (perso, mai trovato), un luogo dell'anima. Un po' come il villaggio dei nativi americani in New World, o le altre forme assunte da questa ossessione malickiana. Così come è ossessiva la presenza del male, la domanda destinata a rimanere senza risposta, soprattutto quando prende le fattezze di Adolf Hitler, la logica dell'odio, il sangue e la razza, lo straniero nemico, che finisce per contaminare anche gli abitanti del villaggio-Eden (la domanda è sempre di attualità: «Non vedono il male?», come fanno a non vederlo?).

Questa è la storia di un uomo che ebbe il coraggio di dire no, anche se tutti intorno gli davano del pazzo, dell'egoista (non pensi alla tua famiglia), dell'orgoglioso convinto di essere migliore degli altri e di poter cambiare il mondo («il mondo non si può cambiare»). Franz non poteva accettare di combattere una guerra in cui non credeva. Rifiutò anche un “dignitoso” compromesso, pur di non dichiarare fedeltà a Hitler. E in questa battaglia fu accompagnato da una donna straordinaria, sua moglie, che accettò anche il supremo sacrificio.

Proprio quando il cinema di Malick sembrava avere preso il volo, in territori (celesti) che era sempre più difficile chiamare cinema - facendosi preghiera e poesia, cercando la verità del frammento e del momento, in un processo continuo di scomposizione dello spazio e del tempo, ricomposti poi secondo una logica misteriosa, tutta interiore - eccolo aggrapparsi a una storia forte e tornare sulla terra (diciamo a qualche centimetro da terra). Una trama importante, un percorso lineare, una storia esemplare, dentro cui il cinema aereo di Malick a tratti si trova quasi impacciato, sacrificato, salvo aprirsi in squarci di luce potente, immagini che sono visioni, emozioni attraversate con sacro pudore, prendendo infine un andamento solenne, quasi epico, commovente.

Il cinema di Malick – coi suoi riferimenti altissimi e insieme “pop”, da Bach a Van Gogh - svela, esalta, trasfigura la “vita nascosta” di un uomo qualunque, un contadino, un uomo buono, che ha il coraggio della coerenza e prende il male sulle sue spalle, che non scappa, non si nasconde, non giudica, accetta anche gli insulti e le percosse, pur di rimanere fedele a se stesso, al suo Dio, a ciò che ritiene essere il bene, e quindi all'esempio del Cristo (il sacrificio finale avviene sulle note dell'Agnus Dei). Sì, c'è sempre la voce over, ma non è più qualcosa che sta “intorno all'immagine”, quasi riscrivendola, non è solo meditazione e litania, sono dialoghi in forma di lettere, i sentimenti più veri, che alla fine diventano invocazione (è il dialogo con chi ami, uomo, donna, Dio). Sì, il montaggio non è mai banalmente lineare, ma è al servizio dei personaggi e della loro storia, non cerca un'altra realtà (uno sguardo diverso che la riveli) ma la sua semplice verità, così come i grandangoli o le dilatazioni temporali. Con quel suo modo solo suo di guardare le cose “da dentro”, di creare immagini che sembrano nascere in quel momento solo per noi, illuminate dall'interno, insieme realistiche e "metafisiche", anche quando sono così liriche da sfiorare il kitch.

E le (quasi) tre ore di durata? Troppe. Eppure ne vorremo di più. La sostanza del cinema di Malick, pur tornando ad essere “narrativo”, sta nel dilatare, sprofondare, contemplare, godere di un mistico panteismo che qui ritrova anche una veemenza romantica, drammatica, che stavolta si compie, trova un porto in cui approdare, la “fine della storia”, la testimonianza esemplare, ma che continua a scorrere, dentro e accanto il film, lo supera e rimane a germinare da qualche parte, in attesa della prossima incarnazione.