Nell’interminabile “guerra grigia” tra Russia e Ucraina nel Donbass si continua a morire per difendere i residui deformati di un’idea di nazione e appartenenza che già si era infranta, su entrambi i fronti, con la de-sovietizzazione. Mustafa, un uomo di mezza età, appartenente alla comunità tatara di Crimea, ha perso il proprio figlio maggiore, Nazim, in questo conflitto. Non è la guerra, però, il suo problema, né il tema al centro dell’esordio al lungometraggio di Neriman Aliev, ucraino, classe 1992.
Il fulcro del film è una delle conseguenze tangibili della violenza, il corpo di un giovane soldato morto, benché lo si veda solo brevemente, quando viene riconosciuto, e quando, più avanti, subirà il lavaggio rituale in un quadrato di lenzuola candide stese ad asciugare. Nazim aveva contrariato il padre, oltre che accettando di andare al fronte, sposando una ragazza non mussulmana. Tuttavia, l’urgenza che Mustafa vive, da buon fedele, è quella di dare una degna sepoltura al ragazzo. Una sepoltura che non solo rispetti i precetti islamici – da cui, per esempio, il rifiuto dell’uso della cassa di zinco, che gli procurerà seri problemi con le autorità – ma, soprattutto, che abbia luogo in terra di Crimea, nella fattoria che, rientrato dall’esilio, egli stesso ha avviato, con l’idea che i suoi ragazzi avrebbero garantito una continuità. Già, i suoi ragazzi, perché di figli, Mustafa ne ha due: il più giovane, Alif, che lo accompagna svogliatamente in questo viaggio, studia lontano dalla Crimea, e forse nemmeno ha troppa voglia di ritornarci.
Aliev concepisce Evge (che si traduce come “verso casa”) quasi come un western on the road – ed effettivamente il percorso è verso occidente – prosciugando, senza disseccarla, la materia narrativa. E allo stesso tempo ne approfitta per costruire per Alif un processo di maturazione e di riavvicinamento al padre, che si scopre anche essere malato.
Mustafa (Akhtem Seitablaev, attore e regista piuttosto noto in Ukraina) e Alim (Remzi Bilyalov, che è il cugino di Aliev, e non è un attore professionista), come il regista stesso, d’altronde, appartengono a una comunità, quella tatara di Crimea appunto, che, accusata dal governo sovietico di aver collaborato con le truppe tedesche, nel 1944 fu deportata dalla penisola, dove era insediata fin dal medioevo, principalmente verso altre repubbliche dell’Asia Centrale e della Siberia; una comunità che alla penisola è tornata non appena è stato possibile, al crollo, appunto, dell’URSS. Una comunità che mantiene un senso di appartenenza fortissimo a questa heimat affacciata sul mar Nero, pur essendo divenuta, nel frattempo, una minoranza e non più l’etnia principale. Il loro viaggio verso casa, con la salma di Nazim nel bagagliaio, tra posti di blocco, pit stop dal meccanico, détour nei mercati, è caratterizzato quindi anche da un incrociarsi e accavallarsi di lingue slave e turche. E di preghiere funebri in arabo. Un universo etnico e linguistico dove i confini sono imposti fisicamente, ma superati culturalmente.
Siamo, d’altronde, in una terra dove i confini fisici sono tutt’al più i fiumi e i laghi, e la progressione del film di Aliev ne tiene conto. Le riprese, del giovanissimo Anton Fursá, rivelano un senso del paesaggio che, approssimandosi la destinazione, diviene predominante, fino ad essere il terzo personaggio in scena, verdeggiante prima, poi sempre più etereo, orizzontale, astratto. Una pianura costellata di acquitrini e lagune, coronata da aloni di luce colorata, che nella luce dissolve qualsiasi idea di confine.