Concorso

The Story of My Wife di Ildikó Enyedi

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Il nuovo film della regista ungherese Ildikó Enyedi dopo l’Orso d’oro a Berlino per Corpo e anima (2017) è la trasposizione del romanzo ungherese del 1942 Storia di mia moglie di Milán Füst (in Italia pubblicato da Adelphi), ambientato negli anni ’20 tra Parigi e Amburgo, con protagonista un capitano di navi cargo, l’olandese Jakob Störr (Gijs Naber), ossessionato dall’idea dell’infedeltà della moglie Lizzy (l’onnipresente Léa Seydoux), giovane donna dell’alta società parigina.

Come recita il sottotitolo del romanzo, il racconto è una raccolta di “reminiscenze del capitano”, una storia al passato che nel corso di quasi tre ore ripercorre la perdita d’illusioni di un uomo banale e arrogante, convinto di tenere tutto sotto controllo ma impotente di fronte all’impossibilità di comprendere a fondo gli altri.

La storia nasce da una scommessa lanciata al capitano dal suo migliore amico, l’uomo d’affari Kodor (Sergio Rubini): sposare la prima donna che entra nel locale in cui siedono. Detto fatto: la bionda Lizzy, con un’abile ellissi narrativa diventa quasi immediatamente la signora Störr, senza che i due si conoscano o abbiano qualcosa in comune, lui senza patria perché marinaio, lei senza famiglia, passato e occupazione.

Il melodramma perde da subito i suoi elementi di base, la seduzione e l’incontro fra anime, e l’amore raccontato diventa un gioco, una scommessa per l’appunto. E così come i due sposi decidono di unirsi dal nulla, così, scrive Füst, «procedono in parallelo verso il nulla»: lei ama lui sulla base di una convinzione, lui è ossessionato dalla sua infedeltà, senza che i suoi sospetti portino ad alcuna prova ma anzi tradendo egli stesso la donna che ama. Il sesso non è mai mostrato, se non quando entrambi decidono di separarsi (salvo non mettere in atto il progetto), come se l’incontro del corpo e dell’anima, in sintonia con il film precedente della regista, dove i due amanti si incontravano in sogno, potesse avvenire solamente al di fuori della cornice creata dalla scommessa iniziale.

Lo spazio interno alla cornice, la sua organizzazione calibrata e razionale, è proprio ciò che Enyedi insegue con la messinscena stilizzata per rendere in termini visivi il desiderio di controllo del protagonista. Alle prese però con una coproduzione internazionale (Ungheria, Germania e Italia, con la collaborazione della Francia) e impacciata con la lingua inglese (inspiegabilmente utilizzata da tutti i personaggi, con effetti di straniamento al limite del ridicolo), la regista perde presto il controllo del film: le ellissi servono semplicemente a far procedere il racconto, senza caricarlo di sospensione o di mistero; la coazione a ripetere del capitano Störr, che s’incaponisce sui propri tormenti e sul desiderio di trovare un posto sulla terraferma, dà al racconto la medesima struttura monocorde; l’eleganza della regia, che evita comunque il polpettone, se da un lato riprende atmosfere del cinema d’autore esteuropeo (le scene ambientate in mare ricordano La linea d’ombra di Wajda), dall’altro non trova mai una cifra capace di evocare i non-detti dell’amore fasullo fra i due protagonisti – la rabbia, le recriminazioni, la violenza, la potenza dirompente dell’innocenza.

A The Story of My Wife manca la libertà e l’originalità del cinema migliore di Ildikó Enyedi, a cominciare dall’opera prima che proprio a Cannes, nel 1989, le fece vincere una Camera d’or, Il mio XX secolo, per arrivare allo stesso Corpo e anima, che ha rilanciato la sua carriera e molto probabilmente le ha offerto l’occasione di realizzare un film da alto budget. Dei toni buffi e leggeri di quel film qui non che un pallido riflesso, a conferma in ogni caso che il cinema in costume è una brutta bestia, per quanto, evidentemente, una tentazione autoriale a cui è impossibile resistere.