Concorso

Titane di Julia Ducournau

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Automobile, interno giorno. Un padre nervoso e una figlia irrequieta che mugugna e scalcia. L’autoradio a volume altissimo, per silenziare la ragazzina. Un improvviso incidente lascia l’uomo incolume, la piccola no: dovrà convivere con una placca di titanio nel cranio, cicatrice che si farà memoria. Anni dopo, Alexia si esibisce in una sorta di lap dance con lucenti automobili in una versione meccanica dei locali di spogliarello: orde di uomini infoiati, devoti, pericolosi. Ma alle eccessive avance di uno di loro, Alexia reagisce uccidendolo brutalmente con una bacchetta che usa per legarsi i capelli.

Capiremo presto che questo non è un crimine isolato e seguiremo la donna nella fuga - dalla legge, ma soprattutto da se stessa - che comporta una trasformazione, anche di genere, del suo aspetto. Alexia è misteriosamente incinta, si spaccia per un uomo, cerca rifugio tra le braccia di un pompiere che ha perso da anni un figlio scomparso e che è pronto a credere che quell’essere androgino e di poche parole possa essere davvero lui, che possa riempire il vuoto dell’esistenza. C’è molta carne al fuoco nell’opera seconda di Julia Ducournau che, dopo il successo di Grave - in cui due sorelle scoprivano l’ebbrezza del corpo attraverso un crescente fascino cannibale - si misura con una storia sovraccarica, derivativa, rumorosa e straniante. In Titane ci sono pulsioni omicide, riflessioni di genere, affetti monchi, vendette trasversali, ambiguità organiche.

Ducournau rilegge e rimastica suggestioni diverse - dall’ovvio Cronenberg di Crash a Generazione Proteus, dal revenge movie al femminile a una palette cromatica che guarda all’ultimo Refn - che troppo spesso confliggono, si accumulano, tracimano in massa indistinta. Il suo sguardo, preoccupato di dare a vecchie questioni (la commistione di organico e inorganico, il legame inscindibile tra il sesso e la morte, la reinvenzione di genere) una forma nuova, si fa confuso e sembra riproporre contenuti rétro in un vestito sgargiante. Agathe Rousselle dona un vitalismo crudele alla sua protagonista, attraversando il film con la sua cicatrice in testa bene in vista, uccide senza rimorso, si fa sedurre - letteralmente - da macchine fiammanti. Quelle fiamme che ritorneranno, come una brace catartica, nel suo rapporto con il pompiere dolente (il solito, straordinario Vincent Lindon) che da anni piange la sparizione del figlio.

In questo rapporto basato sull’accettazione di ruoli scardinati da ogni plausibile realtà - una giovane donna senza più legami che si spaccia per un bambino scomparso da tempo - si intravede un barlume affettivo, la possibilità di uscire dagli schemi precotti di una deriva cyberpunk che cerca solo lo stupore. Ducournau però si sfila da ogni ipotetica ricomposizione per rifugiarsi in un finale a effetto che lascia il sapore di un’ennesima, ripetuta provocazione. Il talento della regista affiora a strappi, perso in un magma che rifrulla elementi già digeriti sfiorando soltanto l’occasione di cogliere veramente un senso di rottura, di spingere fino in fondo l’arma cinematografica e lacerare la carne di un corpo (anche filmico) in continua evoluzione. Titane resta invece in superficie, un’occasione mancata che del metallo del titolo mantiene solo la statica freddezza.