Concorso

Frère et soeur di Arnaud Desplechin

focus top image

Il cinema di Arnaud Desplechin ha da sempre in Roubaix il centro fisico e geografico: il luogo delle origini trasformato in spazio universale, come un unico grande palcoscenico.

Nell’ultimo film del regista francese, Frère et soeur, storia del reciproco odio fra l’attrice di teatro Alice (Marion Cotillard) e il fratello scrittore Louis (Melvil Poupaud), originari di Roubaix da una famiglia cattolica e benestante, la neve che cade in scena durante una rappresentazione di Gente di Dublino è come la grandine che sorprende Alice per strada mentre cerca da mangiare per una giovane ammiratrice: un elemento scenico che trasforma la realtà dei personaggi in una proiezione ideale della loro condizione.

Nel film ci sono pulsioni, sguardi, proiezioni, non eventi o fatti. Una sola è la realtà presente, ed è quella della morte, come già succedeva in Racconto di Natale, dove però la compostezza dello stile e la linearità del racconto appartenevano alla dimensione del dramma familiare. Frère et soeur, che comincia con un funerale e racconta poi la morte dei genitori dei due protagonisti (con loro c’è un terzo fratello, più piccolo e accomodante), ha invece un passo diverso, più libero e stratificato, anche più compiaciuto, ma sempre espressione di una visione cinematografica e letteraria che cerca nell’eccesso l’assolutezza delle emozioni, l’irrazionalità dei legami di sangue, la loro impronta impossibile da eliminare.

Quella tra Alice e Louis è la storia di un amore impossibile che si trasforma in un odio senza ragione e attraverso la gelosia, la rivalità, il silenzio e soprattutto l’egoismo di chi, da artista, è abituato a parlare di sé e a fingere di mettersi a nudo, mentre in realtà non fa che vestirsi di abiti rubati agli altri. A teatro Alice, dopo aver letto il libro del fratello, fatica a indossare il costume di scena, mentre Louis sceglie di scrivere della sorella come se fosse una figura di fantasia, rifiutandosi di parlare della moglie Faunia (Golshifteh Farahani), che pure lo ama e lo ascolta.

«Nessuno di voi si avvicinerà a nessuno dei suoi parenti stretti per scoprire la nudità» dice il passo della torah che Louis ascolta durante una celebrazione dello shabbat: eppure Desplechin scrive e gira film proprio per cogliere la verità dentro il palcoscenico, per cercare la vita dentro la prigione che ogni personaggio si è costruito attorno a sé. È lo stesso padre di Alice e Louis, che morirà dopo una lunga convalescenza in seguito a un incidente stradale, a dire di voler liberare i figli da ciò che si sono costruiti attorno, a toglierli dalla loro narrazione simbolica. Funerali, riunioni di famiglia, presentazioni di libri, spettacoli teatrali: tutto in Frère et soeur è cerimonia, cornice, palcoscenico, e ciascuno parla e si muove per essere guardato o per interpretare la parte di un altro. Alice sposa il migliore amico di Louis («Non ti bastava l’originale?», gli chiede lui riferendosi a sé stesso), mentre Louis conquista la futura moglie facendosi guardare mentre urla alla sorella tutto il suo odio, così vero e insieme così fasullo... Non è un caso che il riavvicinamento dei due personaggi – dopo dieci anni di lontananza e un’ora e quaranta di film – avvenga per caso, con uno scontro che ha quasi del comico ma che serve proprio a spezzare l'artificiosità del loro contrasto.

Alice e Louis sono gli interpreti protagonisti delle rispettive rappresentazioni, attori in cerca di un pubblico, scrittori in cerca di lettori. Il loro odio inizia con uno sguardo, come dice Alice, e con uno sguardo in camera finisce, passando per una risata, un pianto, una zuccata al supermercato, una lettera. Dopo le vertigini prospettiche di I fantasmi di Ismael e la parola letteraria di Roth in Tromperie, Desplechin ha ulteriormente complicato e probabilmente ingolfato il suo metodo: ai suoi film ha dato la forma di un ipertesto, una modernità figlia dei nostri tempi sotto la quale, però, si percepisce il silenzio della solitudine, la necessità di trovare nell’altro, nella sua nudità, un rifugio. Un contrasto tra presenza e assenza, intimità e sguardo rivolto all’esterno che racchiude la natura stessa del cinema.