Concorso

Leila's Brothers di Saeed Roustaee

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Chissà se l’idea di intitolare questo dramma familiare Baradan-e Leila, ovvero I fratelli di Leila voglia davvero riecheggiare Rocco e i suoi fratelli. Di sicuro l’opera terza di Saeed Roustaee ha tra i propri modelli di riferimento il cinema italiano, non necessariamente quello di Visconti, ma magari quello più popolare di Monicelli, Scola, Comencini. O forse è una suggestione indotta dal fatto che i suoi personaggi, inclusa tutto sommato la protagonista, sono brutti(ni), sporchi(ni) e cattivi(ni), e che uno di loro, Alireza, può vantare una somiglianza abbastanza suggestiva con Nino ManfrediNavid Mohammadzadeh, che nel 2017 era stato premiato nella sezione Orizzonti a Venezia). Però, appunto, sono suggestioni.

Leila (Taraneh Alidoosti) di fratelli ne ha quattro, e tutti, lei inclusa, manifestano i sintomi di una cattiva educazione, incapaci di emanciparsi da una coppia di anziani genitori che solo in apparenza si presentano come due simpatici vecchietti con una curiosa passione per il wrestling visto alla TV. Il padre, Esmail, in realtà ha come unica ambizione quella di diventare il padrino del proprio clan famigliare: qui non c’è bisogno di scomodare Coppola, sono strutture che, non solo in Iran, sono ancora sorrette da una robustissima tradizione e adesione popolare; strutture dove, per una volta, la religione c’entra poco, se non pochissimo. C’entra però l’affermazione del maschile a scapito del femminile, della forma rispetto alla sostanza, quello sì, l’ossessione per una progenie che porti avanti i meccanismi in larga parte vuoti del prestigio sociale: motivo per cui in sostanza Esmail è incline sempre e comunque a privilegiare anche il più stolido e incapace tra i figli maschi, disprezzando la più riflessiva e strategica Leila, che malgrado tutto cerca di tirare avanti la baracca, e faticando a relazionarsi anche con Alireza, che è stato a lungo via per lavoro, in un’acciaieria che ha chiuso i battenti.

L’impressione difficile da smentire è che Roustayi, classe 1989, cerchi una via narrativa distinta, se non lontana, da quella dei cineasti iraniani con cui siamo abituati a confrontarci (Panahi, o Farhadi, di cui però vengono volentieri utilizzati gli attori), soprattutto nei confini protetti dei festival internazionali. Anziché perseguire un’economia narrativa, ritagliarsi uno stile riconoscibile, tende a debordare, strafare (fanno impressione le scene di massa, in una tendenza generale al film da camera); sembra preoccuparsi di essere popolare, si direbbe, con un autentico intento educativo.

«Educare vuol dire insegnare a ragionare, non inculcare delle convinzioni prestabilite», dice Leila al fratello Alireza; se anche la citazione è approssimativa, è chiaro il senso della rivoluzione basilare proposta dalla giovane donna contro l’impasse culturale del patriarcato (e quindi del suo riflesso nelle strutture del potere, in Iran ma non solo) l’invito a svincolarsi dallo status quo, immaginare una soluzione anche dove sembra impossibile, una soluzione in cui si riesce a intuire che i cessi di un centro commerciale possono diventare un’impresa profittevole, basta crederci, saper pre-vedere, ma serve anche essere disposti a superare l’idea precostituita di infallibilità dei genitori, accettare che possano essere persone orribili. Anche qui, il passo dall’episodio contestuale all’allegoria politica, pur non sfacciato, è breve: quelle latrine che possono diventare un’impresa moderna sono forse lo Stato, ridotto alle funzioni fisiologiche elementari che deve trovare la forza di rialzarsi.

È un invito allegorico al quale Roustayi sembra dare sfogo nella scena finale, il compleanno di una delle nipotine che nonno Esmail ha sempre visto come una zavorra rispetto alla propria affermazione, un piano sequenza dove, mentre brucia l’ultima sigaretta del patriarca, la scena si riempie di bambine, gli adulti fingono che tutto sia a posto, e la neve finta delle ragazze riempie il quadro: quasi Chechov in un salotto sdrucito di Teheran. Ma quelle ragazze non affronteranno passivamente il destino, come Sonja nel finale di Zio Vanja, cercheranno piuttosto di costruirselo, strutture ataviche permettendo.