Concorso

Tchaikovsky’s Wife di Kirill Serebrennikov

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San Pietroburgo, novembre 1893. Imbrigliata nella veletta che le comprime i lineamenti, due occhi chiari e taglienti, Antonina Ivanovna sta contrattando con il fioraio il testo per una corona da porre ai piedi di Pëtr Il’ič: «Scriva, scriva: sua moglie» mormora compostamente. Lei è la moglie di Čajkovskij: la macchina da presa di Kirill Serebrennikov accompagna Antonina Ivanovna Miljukova (Alena Mikhailova) dentro alla camera ardente dove il Maestro (Odin Lund Biron), morto di colera a 53 anni, è esposto alle visite di chi lo ha amato e ne ha amato la musica, e lo fa con un long take vertiginoso: ma guai a pensare che la ripresa in continuità sia garanzia di integrità ontologica, nel cinema del regista di Leto. In Tchaikowsky’s Wife, come accadeva in Petrov’s Flu, il piano-sequenza, o comunque il long-take, porta con sé qualcosa di febbricitante, allucinato, delirante: in questo caso, giunta di fronte al catafalco, la macchina da presa assiste al risveglio del caro estinto, che reagisce alla presenza della propria vedova, moglie indesiderata, o meglio, donna mai desiderata, rinfacciandole di averla chiaramente avvertita, a suo tempo, ma che lei aveva voluto a tutti i costi il matrimonio, innamorata dell’idea di essere sua moglie. Ed effettivamente eccoci indietro al 1877, nel salotto cosmopolita di una florida mecenatessa che parla in francese e racconta aneddoti sul proprio passato in relazione al musicista (non è chiaro se sia Nadežda Filaretovna von Meck), e Antonina è lì, lo sguardo vispo e l’aria dolce, ascolta tutto e guarda tutto, eppure nessuno sembra accorgersi di lei, sicuramente non Pëtr. E però Nina ha il coraggio di chiedere intercessione per avere un consiglio, una raccomandazione per il Conservatorio, e per lei anche la risposta brusca, controvoglia, che riceve da Čajkovskij, è, se non un’attestazione di interesse, una porta lasciata comunque aperta alla speranza. Una speranza che rinnova, determinata a non arrendersi, mandando al musicista una lettera d’amore, copiata goffamente da un repertorio di frasi fatte comprato per due kopeki. Lo sventurato riceve la lettera, e risponde…

Parlare dell’omosessualità di Čajkovskij nella Russia di Putin è un po’ come parlare dell’omologa condizione di Leonardo da Vinci nell’Italia di Mussolini (ah, no, un attimo, di quella non si parla nemmeno nell’Italia contemporanea, o perlomeno si glissa). Čajkovskij è il compositore tardoromantico russo per eccellenza, è una assoluta gloria patria, ammetterne l’orientamento sessuale è di sicuro un problema per la nazione dove è possibile, tra l’altro, l’ormai famigerato reality I’m Not Gay. Nel 2013, anno in cui veniva approvata la legge federale "per lo scopo di proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia", nota poi come "legge russa sulla propaganda gay” il ministro della cultura russo Vladimir Medinskij ancora si sperticava a dimostrare che il fatto che il compositore del Lago dei cigni non avesse trovato «una moglie adatta» non provava in alcun modo il suo orientamento sessuale. Yurij Arabov, non uno sceneggiatore a caso, ma, ahinoi, il collaboratore storico di Aleksandr Sokurov, stava lavorando a un film biografico sul compositore, e a sua volta negava, dalle pagine di ‘Izvestija’, il fatto che Čajkovskij fosse stato omosessuale, definendolo «un uomo senza una famiglia, incastrato, bloccato dall’opinione che fosse interessato agli uomini». Ma l’orientamento sessuale del Maestro è talmente ben documentato dai suoi stessi scritti e dalla corrispondenza con i suoi contemporanei (e con la famiglia, che era numerosa e tutt’altro che assente), che negarlo sarebbe come dire che non sia stato un buon compositore. A maggior ragione ora che, dal 2018, una mole importante di scritti inediti è diventata disponibile online nel mondo libero grazie a un progetto di ricerca massiccio.

A onor del vero, a coronamento del dibattito, Putin arrivò ad ammettere «dicono che fosse omosessuale, e, a dire la verità non lo amiamo per quello, ma era un grande musicista, e tutti amiamo la sua musica, e quindi?»

Ecco: Antonina Ivanovna ama Pëtr Il’ič innanzitutto per la sua musica, per quel giro di Re minore-Re-Sol minore-Si bemolle-La che rompe il silenzio all’inizio di Ottobre. Canto d’autunno, il brano che lei stessa ripete al piano quando le domandano chi sia Čajkovskij, e del quale dilata i tempi, trasfigurandolo in una sonorità completamente nuova (che da diegetica si fa extradiegetica). Però c’è uno scollamento tra quello che Nina sente e quello che comprende. Nina guarda tutto con i suoi occhi chiari e taglienti, ma sembra non vedere: così come non sente le ragioni di Pëtr quando cerca di dissuaderla dal fargli la corte, nel modo più esplicito che la forma consenta, anche in Russia, alla fine dell’800; dopo il matrimonio non vede, non vuole vedere i comportamenti, gli atteggiamenti del marito, le compagnìe che preferisce alla sua. Dimentichiamoci le corse in slitta e le scene da operetta di lusso di L’altra faccia dell’amore (1971) di Ken Russell, dove Richard Chamberlain era Čajkovskij e Glenda Jackson era Nina: Serebrennikov si riappropria dei personaggi e li restituisce a un’essenza duale profondamente russa. Tchaikowsky’s Wife è assolutamente coerente alla missione di portare sullo schermo il ritratto di un’ossessione, dell’unica moglie possibile (altro che “una moglie adatta”), per quell’uomo. Ed è chiaro che l’orientamento sessuale non è un problema in sé, ma lo diviene in rapporto alla società nella Russia di allora come in quella odierna, e quindi è qualcosa a cui si allude in maniera esplicita, lasciando però il centro della scena all’illusione e alla delusione di Nina. La sua parabola discendente è una caduta senza rete, eppure Serebrennikov non riesce a condannare la sua cocciutaggine, e fa della sua degradazione un martirio, dell’esperienza della corruzione del corpo una poesia più credibile delle frasi da cioccolatino copiate in gioventù. Per risollevarla arriva poi un’altra sequenza in long-take, onirica eppure corporea, danzata su una musica anacronistica, dove Antonina Ivanovna sembra alleggerirsi e rialzarsi per un attimo dal continuo scivolare dal marmo al fango, da quello sporcarsi costante, dal mescolarsi di alto e basso, di lirico e di grottesco che sono le cifre distintive del cinema scomodo, profondamente russo, di Kirill Serebrennikov.