Concorso

Club Zero di Jessica Hausner

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È senz’altro vero come sostiene molta critica, spesso con accezione negativa, che Jessica Hausner gira sempre lo stesso film. Ma non è detto che sia necessariamente un difetto – e nemmeno una rarità nella storia del cinema d’autore – perché questo tornare continuamente su determinati temi e modalità di racconto, vuol dire affrontare un percorso autoriale rigoroso e allo stesso tempo avanzare domande e istanze di grande complessità. Se quest'ultimo Club Zero dà quindi l’impressione di essere qualcosa di già visto è perché il cinema hausneriano riflette su comportamenti, emozioni e sentimenti umani talmente universali e primari da riproporsi sempre in modi differenti.

Il film è incentrato su un gruppo di adolescenti, che frequenta un collegio d’élite in un luogo imprecisato della Gran Bretagna, e il rapporto che ognuno di loro ha con la propria famiglia da un lato e le istituzioni scolastiche dall’altro. L’arrivo di una nuova docente, Miss Novak, che insegna “alimentazione consapevole” con metodi garbati ma estremamente persuasivi, per alcuni di loro diventa l’occasione per radicalizzare il proprio comportamento utilizzando il cibo – e una dieta pressoché assoluta – come strumento di ribellione e autoaffermazione. Hausner racconta questa storia con la consueta asetticità di sguardo e freddezza stilistica, girando quasi esclusivamente in interni e sezionando gli spazi attraverso le geometrie delle inquadrature e degli arredi. Ma usando anche in modo molto consapevole i colori, come già aveva iniziato a fare in Little Joe (2019), giocando con le cromie degli abiti e delle architetture e creando un mondo fuori dal tempo, che ha le sembianze della nostra contemporaneità ma allo stesso tempo appare come una distopia.

Si tratta – come sempre – di un quadro estetico chiuso quello che costruisce la regista austriaca, un cinema pensato e realizzato con un’attenzione spasmodica per i dettagli visivi e le formule narrative. Che non si distacca più di tanto da quell’idea di messinscena spoglia e circolare cui ci ha abituato e nella quale serpeggiano, oltre ai toni drammatici, un gusto del grottesco e della distorsione – i personaggi in un modo o nell’altro sono sempre dei piccoli (o grandi) mostri – accentuato dall’immancabile humor nero.

Eppure non è tutto qui perché Hausner, a ben guardare, sembra cercare se non una via di fuga quantomeno una variazione agli schemi consolidati del suo modo di filmare. Ai totali degli interni a camera fissa – che contraddistinguevano opere come Lourdes o Amour Fou – aggiunge dei movimenti ad avanzare e arretrare (in stile kubrickiano) con lenti carrelli che aprono/chiudono continuamente lo spazio. E che si alternano a ripetuti raccordi sull’asse che (come nel finale) creano un dinamismo estetico molto incisivo e danno un respiro capace di tradursi un una sorta di irrequietezza dello sguardo.

Un apparato visivo che ben si salda al racconto di una società chiusa in sé stessa, impossibilitata a liberarsi delle proprie insofferenze. O di trovare una sublimazione alle proprie ribellioni che non sia completamente autodistruttiva. Il cibo in questo senso diventa l’archetipo che meglio di qualsiasi altro si pone come metafora degli stigmi, i traumi e le rimozioni di una società opulenta e privilegiata come quella su cui il film si concentra. Del resto niente come l’alimentazione e tutto ciò che le sta intorno in termini di salute, agire sociale e sensibilità ecologica è un problema tipico ed esclusivo del primo mondo.

Ecco perché per mezzo del cibo la regista austriaca trova il modo di mettere in campo riflessioni molto più ampie, come quella sul rapporto fra genitori e figli e su quello fra questi ultimi e l’educazione scolastica, riducendo tutto a un gioco fra manipolazione, indottrinamento e relazioni tossiche e conflittuali. O come quella – ormai una costante – della fede, trasformando l’essenza di qualcosa di materico e sostanziale come il cibo a una pura trascendenza, a elemento invisibile in cui si può o meno credere (o credere o meno che sia qualcosa di cui abbiamo effettivamente bisogno). Ma è un gioco senza vincitori, un tunnel senza uscita quello che Hausner costruisce intorno ai propri personaggi, costretti questi ultimi a soccombere ai propri comportamenti e alle proprie responsabilità.

Per questo poco prima del finale la regista inserisce uno dei momenti più disturbanti di tutto il suo cinema. Un episodio (che per bontà evitiamo di descrivere) che crea disgusto, rende la visione insopportabile ma non è fine a se stesso e sfida lo spettatore a scendere a patti con un tema universale e condiviso come quello del rapporto con il cibo, a negoziare con l’immagine e a trovare dentro essa uno spazio emotivo – con buona pace di chi vede solo freddezza e distanza nel cinema della regista austriaca.

Un momento tra l’altro che pone una cesura al film, diventando l’ultimo gesto concreto e tangibile compiuto dai protagonisti. Perché da lì in poi tutto si fa più astratto, immateriale. Nel finale infatti Hausner decide di aprire, lasciar andare, non dare spiegazioni. In una parola: non mostrare. Non attribuisce alcun destino ai personaggi, non spiega e non fornisce alcuna immagine chiarificatrice. Arrendendosi in fondo al fatto che nemmeno un cinema matematico, compiuto e rigoroso come il suo possa mostrare qualcosa di inafferrabile, soggettivo e aleatorio come il concetto evocato dall’ultima parola detta nel film: "fede".