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May December di Todd Haynes

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Gracie vive a Savannah, Georgia, con il secondo marito e due dei suoi figli. La sua casa è ordinata meticolosamente, come la sua vita. La famiglia di Gracie però non è una famiglia normale: la sua relazione con Joe ha vissuto l’onta delle prime pagine dei giornali scandalistici e le è costata un passaggio in prigione. All’inizio della loro storia lei era adulta e lui appena un tredicenne, sedotto “consensualmente” nel magazzino di un negozio di animali. A turbare questa calma apparente, questa recita familiare, arriva Elizabeth, attrice televisiva in cerca di un riscatto autoriale, che è in procinto di interpretare il ruolo di Gracie in un film basato proprio sulla sua storia con Joe. Elizabeth si inserisce, tra il morbido e l’intrusivo, nella routine quotidiana della coppia, indaga i gesti e le liturgie delle relazioni familiari, diventa grimaldello per il risorgere di conflitti sopiti sotto la sabbia degli anni.

May December è un film di specchi e di riflessi che tendono a incrinarsi, di sottigliezze psicologiche e di fuochi interiori. La Gracie di Julianne Moore è una casalinga che aspira alla perfezione, sforna torte a ripetizione da vendere al vicinato, sempre alla ricerca di una normalità che le faccia dimenticare l’eccezionalità della sua situazione. Elizabeth (Natalie Portman), dietro il suo approccio da celebrità disponibile ed empatica, si muove nelle pieghe relazionali come una detective, mossa da un istinto che trascende le motivazioni professionali. Incontra e interroga testimoni del passato della coppia, si sovrappone – si sostituisce – a Gracie, vive quell’immedesimazione fino a trasformarsi in un virus pronto ad attaccare il sistema immunitario della coppia. E al centro di questo continuo gioco di rimandi c’è Joe, narcotizzato nel suo quotidiano, tra il lavoro in ospedale e un barbecue in giardino, marito perfetto che non è mai stato ragazzo, sbalzato dall’adolescenza a una vita adulta di cui non ha avuto neanche il tempo di chiedersi il significato. Un padre che non è stato figlio e che si interroga con un malessere sempre crescente sul proprio sentimento di inadeguatezza.

Todd Haynes rielabora atmosfere di alcuni suoi film precedenti – Lontano dal paradiso, Carol – adeguandole alla modernità del racconto; costruisce un melodramma raggelato, in cui tutti i protagonisti – e non solo Elizabeth, che lo fa di mestiere – sembrano declamare un copione, indossare un costume, recitare una parte. L’afflato psicanalitico non inceppa mai la narrazione – sostenuta dalla magnifica prova delle due protagoniste – anzi enfatizza l’aspetto manipolatorio che sia Gracie che Elizabeth mettono in campo, ognuna impegnata a difendere la propria posizione. La regia di Haynes è fluida, a suo modo classica, mai dimentica, come nei suoi precedenti mélo – nelle conflittualità sopite, nelle increspature emotive, nel tratteggio sicuro dei personaggi – della lezione di Sirk. La colonna sonora rielabora la partitura scritta da Michel Legrand per Messaggero d’amore di Joseph Losey, creando un fascinoso, ulteriore, gioco di specchi e suggestioni. La fotografia plastica accentua i toni pastello delle case del Sud degli Stati Uniti, della natura florida, delle iridescenze delle farfalle. Quelle farfalle che Joe fa nascere allevando bruchi, sentendo il peso metaforico della propria esistenza, costretto a rimanere, suo malgrado, un’eterna crisalide. May December è un dramma da camera che, attraverso la messa in scacco di una normalità solamente apparente, racconta – con la consueta intelligenza ed eleganza del cinema di Haynes – l’impossibilità di essere felici e la fascinazione dell’immedesimarsi, del perdersi nel dolore degli altri per soffocare, almeno per un momento, il nostro.