Concorso

The Old Oak di Ken Loach

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North of England, 2016. The Old Oak (La vecchia quercia) è un pub (l’unico luogo nel quale ritrovarsi dopo che tutto il resto ha chiuso) di un paesino ex minerario vicino a Durham. “Ex” perché la miniera è stata smantellata da tempo, la gente si è impoverita, le case vengono vendute all’asta per una manciata di sterline e poi magari usate per alloggiamenti provvisori dei profughi “ospitati” da uno dei paesi più ricchi del mondo. Anche il pub di J. T. Ballantyne è malmesso, frequentato da un pugno di avventori abituali aggressivi e testardi (ma: “noi non siamo razzisti!”), con la sala sul retro, che un tempo ospitava feste private, matrimoni e riunioni, chiusa da anni, impolverata, con problemi all’impianto elettrico e idraulico. Per non parlare dei problemi personali di T.J., abbandonato dalla moglie (poi morta) e dal figlio. Ma lui tira avanti con Marra, una cagnolina nera che incontrò, per caso o per destino, anni prima, un 9 di aprile. Tutto comincia con le foto in bianco e nero di un gruppetto di locali aggressivi che assistono all’arrivo di un pullman di profughi siriani, gente che si è lasciata dietro tutto, case, cose, persone. Si sente il clic degli scatti della macchina fotografica, insieme alle parole derisorie e volgari dei paesani esagitati. A fotografarli è Yara, una giovane siriana colta, che parla inglese e che nella fotografia ha trovato una ragione di sopravvivenza, lo strumento con cui affrontare il dolore della realtà.

T.J. si fa i fatti suoi, ma col camioncino aiuta una social worker a portare beni di prima necessità ai profughi, un materasso, pannolini per bambini, qualche abito vecchio. Generoso? No, forse solo uno che vuole espiare; ma soprattutto uno che ricorda i tempi in cui lo spirito di gruppo e classe significava qualcosa, gli scioperi con i quali nel 1984 i minatori si opposero (inutilmente) alla politica vessatoria di Mrs. Thatcher, il motto di allora: “Strength, Solidarity, Resistance” (forza, solidarietà, resistenza). E soprattutto la frase che accompagna le vecchie foto del paese e dei minatori appese nella sala sul retro: “If we eat together, we stick together” (se mangiamo insieme, stiamo uniti). Parole fondamentali, da ricordare quando scoppia quella guerra tra poveri che non è più strisciante, ma ormai dilagata oggi in tutto il mondo occidentale. E il cibo non è solo sostentamento: è anche una consolazione dal dolore, quello che ti fa venir voglia di continuare a vivere.

Ha un gran rigore “la vecchia quercia”: più vicino ai novanta che agli ottanta, insieme al fidatissimo e bravissimo sceneggiatore Paul Laverty, Ken Loach realizza un film pulito, semplice, lineare, limpidissimo negli intenti e nella forma, dove i due protagonisti (Dave Turner, già tra gli interpreti di Sorry, We Missed You e I, Daniel Blake, ed Ebla Mari, venticinquenne insegnante di recitazione siriana) sono continuamente circondati, protetti, ostacolati dal coro mutevole dei rifugiati e dei locali. Non ci sono buoni e cattivi tra i personaggi (anche se alcuni sono francamente antipatici), solo gente infelice e impoverita che la miseria e la disillusione spingono all’astio e all’aggressività. Loach li segue, li controlla, non eccede, non bara; persino ti aspetti quello che succede (perché, come diceva Hitchcock, “Se in un film fai vedere una pistola, poi quella pistola deve sparare”). Eppure The Old Oak non è mai banale, “telefonato”, risaputo. Sappiamo dove vuole portarci e sappiamo che non ci resta che assecondarlo, perché la misura della speranza sta proprio in quelle pieghe della Storia, e in quelle piccole storie personali intraviste, sfiorate da una macchina da presa che sa ritrarsi, sa mettersi in secondo piano rispetto all’idea che vuole rappresentare. Probabilmente un’utopia, ma fa solo bene all’intelligenza e all’immaginazione continuare a coltivarla, continuare a credere che il gonfalone con la vecchia quercia e il suo motto tessuto dalle donne siriane possa davvero marciare ancora.