Concorso

The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof

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Teheran, nelle strade si moltiplicano le proteste e gli arresti in seguito alla morte di Mahsa Amini, la studentessa ventitreenne morta il 16 settembre del 2022. Abbiamo visto da poco Iman (Missagh Zareh) diventare procuratore, dopo vent’anni di carriera fedele alla causa della rivoluzione – verrà poi il sospetto che non sia avvenuto nella più limpida delle maniere –, e lo abbiamo visto opporre una iniziale resistenza ai metodi adottati, ma anche portarsi a casa una pistola. Mentre la protesta nelle strade monta e lo stato teocratico e la Polizia morale mettono in atto le forme più violente di  repressione, i suoi turni smettono di avere orari. Lo aspettano a casa la moglie Najmeh (Soheila Golestani) e le figlie Rezvan (Mahsa Rostami), studentessa universitaria, e Sana (Setareh Maleki), adolescente smaliziata e attenta osservatrice: la prima è al corrente dell’arma, che rimane però nascosta alle figlie per non generare preoccupazione. Un’amica di Rezvan, venuta dalla campagna per studiare all’università, viene ospitata una prima sera, superate le forti resistenze di Najmeh, ma, soprattutto, verrà riportata nella casa una seconda volta, colpita in pieno volto dai pallini di una doppietta. Najmeh cura le ferite della giovane, non senza giudicarne le ipotetiche posizioni politiche e morali; di lì a poco Iman si laverà le mani e il volto proprio nel lavabo dove i proiettili e  il sangue della ragazza sono stati gettati, un passaggio tutt’altro che secondario alla prova dell’elemento simbolico. Ma il vero problema si genera nel momento in cui l’uomo, che rientra sempre più tardi ed esce prestissimo il mattino si accorge che la pistola d’ordinanza non è più al suo posto. Assenza che potrebbe procurargli problemi serissimi: oltre al carcere, la perdita del posto e soprattutto della credibilità. Comincia una ricerca spasmodica dell’oggetto, che lo indurrà a sospettare delle figlie, soprattutto di Rezvan, ai suoi occhi pericolosamente vicina al movimento studentesco, e ad applicare in casa le tecniche di interrogatorio che in tutta evidenza ha rapidamente appreso  al lavoro, trasformandosi dal babbo buono e comprensivo che era in un vero e proprio orco temibile, disposto a portare le tre donne di casa da un collega per sottoporle a un'ulteriore inquietante ordalia. Ma gli orchi della rivoluzione hanno sottovalutato i pollicini della resistenza, armati di cellulare e social media.

Non possiamo rimproverare a Mohammad Rasoulof di usare Hitchcock e la fiaba per raccontare l’Iran contemporaneo, né pensare che adottare questi riferimenti e uno sviluppo da cinema quasi sfacciatamente di genere renda la sua operazione meno politica. Il suo film adopera le formule del cinema classico, come appunto il MacGuffin hitchcockiano della pistola sparita, o il confronto da western nel villaggio abbandonato, che diventa un labirinto escheriano nella forma e kubrickiano nella sostanza; ma evoca esplicitamente anche le strutture ancestrali della fiaba, come d’altronde faceva proprio Kubrick. E tutti questi sono motivi di forza, non una debolezza. Come è una forza disattendere le attese dello spettatore che si crede più smaliziato, perché a volte le cose sono esattamente come sembrano. Certo, forse non ha la raffinatezza registica di un Panahi o la scrittura articolata di un Farhadi, e non punta magari nemmeno ad avere quel tipo di stile; non ha probabilmente nemmeno avuto il tempo per mettere a punto delle soluzioni visive o di scrittura di grande raffinatezza. Ma ha l’urgenza dirompente di raccontare la frattura di una società che cerca di aprire il paese alla democrazia e alla libertà di espressione dopo 45 anni di regime teocratico, pagando le conseguenze del proprio gesto con l’esilio.

The Seed of the Sacred Fig non nasconde l’aspetto traslato, allegorico del dispositivo, fin dal titolo e dalla citazione in esergo, che ricordano come i semi del fico sacro germoglino e crescano sui rami di una pianta morente, sostituendosi in sostanza ad essa: un’immagine che rimanda probabilmente alle nuove generazioni di iraniane e iraniani, e alla speranza che il seme, che arriva comunque da una resistenza che esiste fin dal 1979, attecchisca sui rami morenti dello stato degli ayatollah. Una dimensione allegorica che rende necessaria la formulazione dell’intreccio nei modi che dicevamo, senza togliere nulla a un soggetto che assimila le strutture patriarcali della famiglia a quelle dello stato teocratico lasciando spalancate le porte domestiche alle forze repressive di quest’ultimo. E in questo suo essere per certi versi regolato da dei punti fissi, che a qualcuno parranno passaggi schematici, il racconto di Rasoulof si offre come unica cornice possibile per le immagini in presa diretta della Storia. Gli inserti con i video della polizia ordinaria e della polizia morale che reprimono il movimento delle universitarie e degli universitari, pur già visti sul display del cellulare, irrompono sul grande schermo nella cornice tutto sommato patinata, mediata, del thriller domestico con una potenza immediata che non può e non deve lasciare indifferenti.
Lo sguardo delle cam dei cellulari dei pollicini, diffuso in rete e contrapposto alle sterili e controproducenti registrazioni degli interrogatori degli orchi, forse è quello lì il seme del fico sacro.