Il calcio che sfida l'immagine

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Sono bastate poche partite di questo Mondiale brasiliano per capire una cosa che sapevamo già: il calcio è uno sport senza tempo, nel senso che è indeciso tra il futuro e l'età della pietra.

Mentre nel resto delle mondo, in tutte le sua manifestazioni più o meno vacue, la tecnologia accompagna e assiste l'uomo, il calcio rimane una piccola roccaforte di oltranzismo anti-evolutivo, una sacca di resistenza umana degna di un film di Terry Gilliam.

Se non ci fosse di mezzo qualcosa di serio si potrebbe anche ridere della situazione grottesca in cui versa una delle attività umane più seguite e importanti sulla faccia della terra, ma in un certo senso, superata la repulsione immediata e spontanea, è anche interessante analizzarne l'ambiguità.

La paura di Blatter e dei potenti del calcio è l'attesa, dunque la noia. Eppure uno chiunque di quei milioni di persone che seguono le partite del Mondiale brasiliano ha impiegato sei secondi sei per vedere il replay e capire che l'arbitro e/o il guardialinee avevano sbagliato. Va anche detto, ad onor del vero, che questo è il primo Mondiale in cui è attiva una tecnologia per stabilire se una palla abbia varcato o meno la linea di porta: ma l'impressione è che questo sia semplicemente un palliativo, un pretesto per sedare gli animi.

Quella del calcio insomma sembra proprio una sfida all'immagine, alla sua ontologica infallibilità. E in un mondo dove ognuno può farsi testimone supremo con il proprio videofonino, questa sembra una sfida davvero insormontabile. Eppure il calcio è lì, con il suo motto “resistere resistere resistere”, mentre tutti intorno ne fanno un'autopsia in movimento. Perché la moviola cosa è se non una dissezione di un corpo morto?

Per amare il calcio allora non ci resta altro che girare lo sguardo, far finta di non vedere. Il calcio insomma ci nega The Act of Seeing with One's Own Eyes, per dirlo con Brakhage. E chissà, magari questo non è necessariamente un male...