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Presentato nella sezione “Revoluciones Permanentes” del Festival de Cine de Sevilla, <3 di María Antón Cabot è una specie di Comizi d’amore (1965) del nuovo millennio. Anche in questo caso si tratta di intervistare ragazzi di diversa estrazione sociale cercando di indagare il loro rapporto con la sessualità. Ma cosa e quanto è cambiato il rapporto col sesso e con l’amore per le nuove generazioni – spagnole stavolta e, in realtà, non è una differenza da poco – rispetto a quelle italiane di quasi cinquant’anni fa? Ciò che immediatamente risulta evidente è la maggior consapevolezza femminile del proprio corpo e del proprio desiderio, l’emancipazione e l’atteggiamento quasi provocatorio nei confronti dell’uomo. La ragazza che viene seguita pressoché per tutto il film non ha problemi a flirtare su Facebook o Tinder, dire tutto ciò che la fa pensare alla sessualità nel corso di una giornata, provarci con un ragazzo che le piace. Tutto con la stessa naturalezza con la quale, da sola, si mette a andare per il parco cittadino su uno skate o si ferma a fare una specie di danza di gruppo in una piazzola in cui un capannello di persone si è dato appuntamento per fare ginnastica. Il fatto che si muova per tutta la giornata in solitudine e in maniera indipendente la dice lunga sul modo di sentire sé stessa all’interno della società, come qualcuno che non ha necessità di stare con gli altri per qualche obbligo, ma soltanto per il suo piacere.

Al suo fianco troviamo anche coppie, alcune timide, che hanno iniziato da poco la propria storia, altre più rodate, con alle spalle anni di convivenza, come due giovani ragazzi omosessuali. Ma se la maniera di parlare del sesso è spesso sfrontata e diretta, è l’amore, o meglio la questione sentimentale a mettere in difficoltà i ragazzi, che hanno ormai adattato, anche per pratica, il loro vocabolario, al fraseggio degli sms (non un caso dunque il <3 del titolo).

Ma il film di María Antón Cabot non ha nulla di moralista. Non vi è alcun giudizio sui ragazzi intervistati né sul loro modo di esprimersi, solo il tentativo di mettere a fuoco la comunicazione delle nuove generazioni. Meno “arrabbiata” di Pasolini che vedeva nella giovane coppia borghese fintamente emancipata e nel suo “mettersi in scena” una conseguenza del capitalismo imperante, la regista fa un lavoro a sua volta politico. Se messa a paragone con quella italiana, la generazione dei Millennial spagnoli appare di sicuro – pur con le dovute differenze – più a suo agio col corpo e coi ruoli oramai interscambiabili, ma soprattutto meno maschilista. Ci sarebbe da chiedersi il perché dal momento che anche la Spagna è un Paese profondamente cattolico in cui la famiglia ha ancora un peso fondamentale. Eppure, la famiglia stessa non risulta essere patriarcale, ma il potere all’interno del nucleo è assai più mescolato e condiviso.

Sarebbe interessante, almeno per una questione sociale, rifare un Comizi d’amore negli stessi luoghi in cui girò Pasolini e vedere come i “figli” e i “nipoti” dei precedenti intervistati abbiano cambiato abitudini e atteggiamenti, evitando, per esempio, gli articoli tra l’horror-scandalistico – in cui le ragazzine al liceo vengono fatte passare più o meno come prostitute, tutte pronte a vendersi per una ricarica del cellulare – e l’agiografico, altro quotidiano che invece ribatte con un’intervista alla “brava ragazza” che non si è mai ubriacata, non ha mai fumato una canna e ha fatto l’amore solo per amore e mai per puro piacere.

Forse sarebbe il caso di smettere sia il paternalismo che la ricerca del sensazionalismo, cercando di comprendere senza giudicare in che modo sono cambiati i rapporti partendo proprio dalla parola di chi questi rapporti li sta pian piano rinegoziando.