Speciale "Jackie" di Pablo Larraín

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Jackie è indubbiamente il film del momento. Che piaccia o non piaccia il cinema di Pablo Larraín (l'antipatico, l'ambizioso, il cerebrale, il geniale, chiamatelo come volete) è un oggetto complesso e raffinato che merita, sempre, ogni volta, una riflessione attenta. Questa volta, oltre alla recensione di Fabrizio Tassi, abbiamo provato a ragionarci insieme partendo proprio dalla questione centrale non solo in Jackie ma in tutto il cinema di Larraín, il racconto della Storia. La redazione si è messa allora a discutere (anche se sul valore del film siamo sostanzialmente tutti d'accordo) ed ecco qui di seguito alcune delle osservazioni che sono emerse.

Roberto Manassero

La questione decisiva del cinema di Larraín è il racconto della Storia. E la cosa crea qualche malumore. Come ha scritto Fofi a proposito di Neruda: «Quel che è meno accettabile è [di Larraín] la sua presunzione autoriale, il suo scarso o nullo amore per i personaggi che sono ridotti a pedine del suo gioco. Larraín non ha nessuna voglia di spiegare la storia […] e il suo scopo non sembra essere quello di chiarire ma quello, ancora una volta, di imbrogliare». E perché, mi chiedo, l’imbroglio dovrebbe essere un problema? La Storia può ancora essere spiegata con i mezzi che abbiamo oggi, dentro questa orchestrazione di massa a cui la società dello spettacolo ci fa partecipare nostro malgrado? Se Larraín non racconta, ma certifica un fallimento epocale nel rapporto fra rappresentazione e comprensione, la sua è una colpa o, proprio per questo consapevolezza negativa, un merito? È forse da rappresentanti di una generazione (la mia, nata a fine anni ’70) che ha vissuto il declino dell’ideologia non credere fino in fondo nella memoria, nel racconto, ma nonostante tutto credere nel cinema, nella sua capacità di illuminare il caos da prospettive molteplici? Ed è forse un errore considerare la cornice più importante della scena stessa, concentrandosi proprio su quella che Mariuccia Ciotta, nella sua stroncatura di Jackie, definisce «una scena visivamente lussuosa e vertiginosa […], lungo prospettive alterate, quasi un 3D dentro spazi oscillanti tra pop e suggestioni pittoriche»?

 Chiara Borroni

La colpa c’è, in effetti, se pensi davvero, in termini etici ed intellettuali, che Larraín imbrogli... ma dove sta l’imbroglio? Se c’è una cosa esplicita nel cinema di Larraín, perfino in un film come Jackie che è quanto di meno esplicito ed enunciativo si possa pensare, è proprio che la questione centrale non è spiegare la Storia, non è ricostruirla ma è dichiararne il carattere narrativo. Tanto che la memoria stessa, quella personale come quella storica, è innanzitutto racconto, edificazione di una mitologia, della propria personale come di quella condivisa. Per questo non esistono biopic nel cinema di Larraìn ma storie sulla Storia, per questo un film su Pablo Neruda può diventare un western (come dice giustamente Lorenzo Rossi) e un film su Jacqueline Kennedy può diventare un horror. E allora sì, forse, che si può parlare di malafede, nel senso proprio di volontà consapevole di tradire il racconto ideologico in favore di un racconto mitologico; ma è proprio nel suo essere espansa, moltiplicata, rifratta, iper-estetizzata che questa messa in discussione della Storia e della memoria diventa appunto merito e non colpa.

Lorenzo Rossi

Ma infatti chi racconta una storia è un mediatore e per sua stessa natura imbroglia, parzializza e orienta la narrazione. Il “negativismo storico” di Larraín non coincide, fra l’altro, con l’opinione che egli ha delle figure che racconta. Jackie Kennedy, analogamente a Pablo Neruda è, oltre che una guida, uno strumento di comprensione, l’elemento marginale, se vogliamo, che si pone come interprete del racconto. Il regista non ci narra la loro storia ma la Storia che sta loro intorno, per questo non possiamo chiamare questi film dei biopic in senso stretto. Jackie è del resto (come lo era Neruda) un film politico che non sceglie una figura politica come protagonista e che per questo può permettersi di edificare una mitologia (come si dice sopra) che non deve coincidere per forza con lo sguardo negli occhi della Storia. Forse parlare di “imbroglio” significa non ammettere che si possa fare politica al cinema abbandonando una prospettiva ideologica. E non contemplare il fatto che si possa raccontare la Storia attraverso un punto di vista talmente periferico (anche in maniera estrema, come in Post mortem) da lasciare la spaventosa sensazione che non esista nessuna fine, nessuna somma da tirare, nessun termine del racconto.

Fabrizio Tassi

Io capisco la nostalgia per quei tempi in cui c’era una visione delle cose (della storia e del cinema) contro un’altra, ed era più semplice interpretare un fatto o un film, un personaggio o un’idea. Eri dentro o fuori quel cammino, un percorso lineare, chiaro, con un orizzonte stabilito, e quindi c’era un modo giusto e uno sbagliato di pensare un personaggio come Neruda o come Jacqueline. Il fatto è che uno come Larraìn (con la sua consapevolezza illuminata, che per qualcuno è cinismo autoriale) riesce a vedere in Jackie la donna e l’icona insieme, sa raccontare il fatto-oggetto-evento ma anche il simbolo e il feticcio, sa mettere in scena con meticolosa precisione la cosiddetta realtà insieme alla sua rappresentazione (una delle tante possibili). C’è il repertorio, la scena che mima perfettamente il documento (l’intervista), l’interpretazione “corretta” di fatti e sentimenti, l’immaginazione della verità umana individuale che sta dietro la verosimiglianza collettiva di un certo modo di raccontare la storia. C’è il consueto gioco di specchi. E così personaggi e fatti mummificati dal documento, la Storia, il racconto, l’interpretazione, tornano ad avere una salutare ambiguità e complessità. Perché il “potere” non si lascia afferrare così facilmente. E comunque, alla fine, come dice il film, la vera grandezza (dell’uomo, anche di quello che fa o guarda cinema) sta nell’ostinazione con cui ogni volta ricomincia da capo. Non mi sembra affatto una banalità.

Giampiero Frasca

A me pare che Larraín sia attualmente il miglior esemplare cinematografico di una tendenza che, negli ultimi anni, ha visto alcuni pregevoli esempi in campo letterario. Penso a quei particolari “oggetti narrativi”, per dirla come i Wu Ming, che guardano alla Storia per inserirsi nei suoi interstizi e riempire di letteratura ciò che è sempre stato di esclusivo dominio della documentazione storica. Mi riferisco in particolare a «HHhH» di Laurent Binet o «La benevole» di Littell, seppur da due prospettive in qualche modo complementari, anche se entrambe aderenti a quella visione metaletteraria della Storia pensata da Hayden White. in un momento in cui nel cinema, soprattutto in quello americano, pare condizione essenziale che un film sia “tratto da una storia vera”, Larraín prende il vero, la cronaca, il respiro stesso della Storia e vi si pone di lato, sia nella visione periferica dei suoi primi film, sia ora che nella Storia ci si trova con entrambi i piedi. Si potrebbe gridare all’imbroglio se Larraín inventasse fatti storici, se manipolasse ucronicamente i fatti (e anche in questo caso, per me, una giustificazione si potrebbe trovare). Ma non fa questo: semplicemente narra per immagini, riempiendo i buchi che non sono della Storia ma esclusivo dominio della supposizione. Non si fa strumento della Storia, non è questo il suo compito: fa del cinema, rende soggettive delle immagini sottraendole al regno dell’oggettività in cui hanno sempre dimorato (e anche su questa presunta oggettività si potrebbe discutere). Tramite il cinema inscrive la Storia in una memoria ulteriore, fatta di persone e non di fatti in cui le stesse persone compaiono solo per giustificare l’evento più ampio. È una questione di messa a fuoco: Larraín opera una veloce transizione focale e mette sullo sfondo ciò che è sempre stato in primo piano. È narrazione, non ha morale e non segue principi etici sulle modalità del suo sviluppo: o avvince o non merita di esistere. non esiste altro.

Leonardo Gandini 

A me Neruda è piaciuto più di Jackie, credo però che entrambi vadano considerati parti di un dittico nel quale Larraín prende il biopic e ne capovolge la logica, chiarendo che il cinema non può porsi, verso il personaggio celebre di turno, in una posizione di subalternità che si traduce in un atto di risarcimento documentario e documentato, quanto - all’opposto - piegare il personaggio ai propri criteri di affabulazione narrativa e visiva. In Neruda questo ha un respiro lirico, borgesiano - del resto siamo in Sudamerica - in Jackie più freddo e brechtiano, anche perché l’evento con cui ha che fare, parlo dell’assassinio di JFK, rappresenta, nel Ventesimo secolo, un caso esemplare di Storia che, una volta passata attraverso il tritacarne dei media, diventa storia. Tant’è vero che Jackie andrebbe, con la dovuta calma, comparato con JFK di Stone, per capire come sullo stesso argomento si possano realizzare, sia pure a partire da posizioni simili nell’intento decostruttivo, film così differenti negli esiti estetici  

Federico Pedroni

Il racconto della Storia. A me verrebbe quasi da invertire le maiuscole, perché nella messa in scena precisa fino all’ossessione di Larraín sembra essere la necessità del Racconto a dettare le regole d’ingaggio della storia. In Jackie la Storia viene continuamente messa in scacco, riscritta, corretta, modificata, plasmata dai suoi protagonisti. L’America è un luogo da raccontare a un pubblico, una narrazione da costruire, trasmettere, tramandare: la visita televisiva alla Casa Bianca messa in onda nel 1961 è studiata nei dettagli esattamente come poi succederà al corteo funebre di JFK due anni dopo. Ogni azione è provata di fronte a uno specchio, ogni battuta è memorizzata a comando, ogni ricordo deve passare il vaglio dell’efficacia più che di quello della verità, ogni particolate – un abito, uno sguardo, un tono di voce – è un necessario veicolo di senso. L’intero film appare come una minuziosa ricostruzione volta a testimoniare quell’istante che intercorre tra il farsi della Storia e il suo cristallizzarsi in mito, quell’impercettibile baratro in cui si inventa la verità. È come se si radiografasse il momento del «print the legend» fordiano di L’uomo che uccise Liberty Valance per decodificare il funzionamento della sua messa in atto (o, meglio, in scena). Larraín da un meccanismo così complesso – che regola anche i rapporti psicosociali tra individuo e potere – distilla pensiero e narrazione (in anni in cui storytelling è diventata una parola vuota) lavorando instancabile sulla materia prima del mito: l’immagine. In questo Larraín mi sembra più teorico che cerebrale: non riesco a trovare nei suoi film nessuna freddezza, semmai una lucida osservazione di personaggi incastonati nella Storia che li racconta, inscindibili dal loro contesto fino al punto di diventare i fantasmi che lo abitano.