American History X di Tony Kaye

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Questa sera, su Spike (canale 49), alle 23:40 andrà in onda American History X. Film del 1998 con Edward Norton, segnò l'esordio alla regia di lungometragi per Tony Kaye,. Ripubblichiamo la scheda che Adriano Piccardi scrisse su Cineforum 388 (acquistabile qui).


Ciò che colpisce immediatamente, di American History, è l'estrema naturalezza con cui - ancora una volta e rinnovando una tradizione consolidata, che è stata capace di produrre, in questo modo, anche opere di grande valore- un film americano riesca a mettere in scena un argomento dagli evidenti risvolti sociali, o nel quale, comunque, prendono forma dinamiche generate dagli attriti interni a una collettività, imponendolo all’attenzione del pubblico come evento eminentemente privato. Il personaggio precede il problema di cui è portatore attraverso la sua storia personale, e quest'ultimo trova nel primo, in qualche modo, la giustificazione stessa del suo porsi come degno di attenzione. Sia chiaro che tutto questo è detto non per esprimere valutazioni pregiudiziali di ordine ideologico. Sta di fatto che, nel corso del loro incontro all'interno dell'infermeria del carcere, dove Derek è stato ricoverato in seguito alla violenza subita dal gruppo dei detenuti bianchi come punizione per il suo "tradimento", il preside Sweeney, venuto a trovarlo, per farlo riflettere sui limiti dei va lori abbracciati e proclamati fino ad allora gli pone come domanda risolutiva quella relativa a quali conseguenze tali scelte abbiano comportato per la sua vita. Il ribaltamento della prospettiva è radicale e istruttivo: Derek fino ad allora si è visto come facente parte di un "organismo" al quale era necessario anche sacrificarsi in nome della causa; ora, per valutare la riuscita della sua scelta rozzamente collettivistica viene costretto a rispondere alla domanda liberale per eccellenza. Non a caso il rovesciamento della questione viene operato da un preside: questione di didattica e di sceneggiatura, visto che il film fonda su questo intervento la conversione del personaggio e il suo recupero ai valori della convivenza e del dialogo.

D'altra parte, che il personaggio di Derek non fosse da considerare un "irrecuperabile" era chiaro del resto fino dalle prime sequenze. Iconograficamente non c'è una sola inquadratura che lo condanni: anche quando lo vediamo compiere il duplice omicidio per il quale verrà mandato in carcere, è percepibile nella sua figura qualcosa di "eroico", che a prima vista lascia perplessi per l’ambiguità del punto di vista che sembra derivarne, ma che in realtà trova giustificazione proprio nella sua funzione di preparare il terreno per una sua successiva plausibilità nella veste di protagonista positivo alla quale è destinato. A questo proposito, la sequenza della partita di pallacanestro giocata per la "conquista del territorio” è determinante: perfino stucchevole per la facilità con cui enfatizza la vittoria dei ragazzi bianchi sui loro coetanei neri , in realtà si affida consapevolmente alla forza di meccanismi classici di identificazione non con l'intento di ratificare la superiorità razziale del gruppo vincitore, ma con quello di evidenziare bene la superiorità morale di Derek rispetto a tutti i contendenti e gli spettatori. Ne risulta più comprensibile la sua reazione violenta al tentativo di furto, di cui sono protagonisti, guarda caso, proprio alcuni degli avversari sconfitti sul campo, e dunque rafforzata la potenzialità di simpatia nei suoi confronti. 

Tony Kaye, proveniente dalla pubblicità e al suo esordio nel lungometraggio, ha saputo mescolare abilmente le carte con un montaggio cronologicamente non lineare, strutturato intorno alla ricostruzione delle vicende da parte del fratellino di Derek costretto dal preside a redigerne una relazione: in questo modo la consequenzialità degli eventi (e con essa il pericolo di una troppo facile adesione "giustificazionista" al crimine commesso da Derek) perde di forza senza intaccare la forza del personaggio, sostenuta dal lavoro combinato di fotografia (diretta dallo stesso Kaye) e montaggio (Jerry Greenberg: Il braccio violento della legge, Apocalypse Now, Kramer us Kramer, Vestito per uccidere, Scarface, tanto per ricordarne alcuni).

Se il personaggio precede il problema, come si diceva all'inizio, la cosa non vale soltanto per l'ovvia importanza di Derek, ma anche per l'indispensabile controcampo costituito dal giovane Danny. Il funzionamento della messa in scena è sostenuto dall'alternarsi dei loro due punti di vista, nei quali viene sintetizzato un processo di perdizione/riscatto il cui centro di gravità non si estende, in definitiva, oltre i confini della famiglia. Se l'assunzione di questa scelta tradizionale di delimitazione del terreno di movimento dei personaggi contribuisce, però, in un primo momento, a costruirne tutta la forza e ad approfondirne l'ambiguità, nondimeno porta con sé anche la debolezza del film, a mio avviso riscontrabile nei due momenti di "conversione", prima di Derek e poi di Danny. Non è in gioco la plausibilità del cambiamento, ma la rapidità con cui si verifica, palesemente in attrito con la totale adesione di entrambi i fratelli alle precedenti convinzioni: il lavoro sul personaggio lascia spazio, cioè, alla necessità di affermazione della tesi di cui il film vuole essere portatore, sacrificando alla compattezza dell'impianto narrativo-drammaturgico, fino a quel momento predisposto coerentemente, la liturgia del messaggio. Un'attenzione maggiore alle sfumature delle emozioni e del pensiero avrebbe evitato la trappola finale dell'agiografia: la conclusione avrebbe guadagnato in verosimiglianza senza nulla perdere in spettacolarità e impegno etico-politico.