Big Fish di Tim Burton

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Cine Sony dedica la Vigilia di Natale a Tim Burton, trasmettendo Edward mani di forbice (h 21:00) e a seguire Big Fish (h 22:55). Cineforum 433 riservò proprio a Big Fish uno speciale con cinque articoli firmati dai nostri collaboratori. Abbiamo selezionato quello firmato da Emiliano Morreale (non nella versione completa).


Amore e morte nel giardino di Tim

Nonostante l’origine su commissione e la derivazione letteraria, l’ultimo film di Tim Burton mostra ambizioni altissime, di riepilogo del proprio cinema e soprattutto di ricapitolazione e rifondazione di un intero immaginario letterario e filmico con le lenti della propria imagery; una vera rilettura burtoniana degli archetipi della letteratura americana.

Certo, Burton nella sua apparente eccentricità stava già perfettamente nel solco dell’immaginario americano, con una particolare sintonia per le sue origini otto e addirittura settecentesche. Se è vero, come sosteneva il classico Fiedler, che il romanzo americano è sostanzialmente «una letteratura macabra per ragazzi» e che «nell’insieme sembra una camera degli orrori camuffata da baraccone di Luna Park», Burton è davvero uno dei grandi narratori americani per immagini, autore di fiabe paurose e inventore di personaggi che hanno sempre avuto il dono prodigioso di incarnare lo spirito e la luce di un luogo (di solito, i sobborghi californiani in cui Burton è cresciuto) e le radici più affascinanti e paurose del racconto e della visione.

L’impressione è però che Big Fish sia il primo film in cui Burton mostri una esplicita consapevolezza auto-riflessiva, anzi in cui la riflessione su di sé offusca il talento di inventore del regista. La prima cosa, lampante, che salta agli occhi guardando Big Fish è che si tratta del primo film in cui Burton filma il mondo ordinario. Tutta la cornice sulla morte di Edward Bloom è filmata con un realismo quasi piatto; sono scene mestissime, come orbate di qualcosa. Poi, all’interno dei racconti di Edward, ritroviamo il consueto mondo di Burton, ma letteralmente messo tra virgolette, come se esso non avesse più, per l’autore, valore in sé. [...]

Big Fish è in sostanza un film sul raccontare storie, completamente auto-riflessivo, e insieme un film di morte come e più degli altri di Burton. Il protagonista di Big Fish è l’ultima incarnazione di quella «strategia dell’evasione» che Leslie Fiedler vedeva come tema e forma dominante del romanzo classico, a partire dal «Rip Van Winkle» di Washington Irving. Ma il suo aggirarsi picaresco avanti e indietro nel tempo ha un centro ben definito, fin dalla prima “novella”. È questa anche la grande differenza con il romanzo di Daniel Wallace da cui il film è tratto. Il potere di Edward Bloom è di conoscere il momento della propria morte, per averlo visto nell’occhio della strega, e questo guiderà tutta la sua esistenza. Nello stesso tempo, il film dipana e sviluppa come filo conduttore il tema di un’unica grande storia d’amore che si incarna in immagini femminili diverse lungo tutta una vita. Aggiungendo il leitmotiv del vedere la propria morte e quello della storia d’amore, e una struttura meno dispersiva del libro, Big Fish diventa così un romance, letteralmente visionario, d’amore e morte […].

Il centro narrativo e figurativo del film è infatti, oltre all’occhio della strega, il villaggio di Spectre, che è in fondo la vera ambientazione del film. Una incarnazione del più classico ideale pastorale, Paradiso, Villaggio dei Morti, Valle Addormentata. Perché i vivi stanno insieme ai morti, non prima o dopo; stanno insieme e a fianco ai morti e alle storie. Burton rende spaziale il loro altrove temporale, un luogo da cui si va e si viene e a cui si torna. Basterebbe l’invenzione di quel luogo, purissimo Burton, a mettere il regista tra i massimi artisti americani della sua generazione. Nessuno racconta così bene la malinconia degli spettri e dei diversi.

La letteratura degli Stati Uniti d’America ha due grandi paradigmi temporali, entrambi centrati sulla morte. Uno è espresso da «Rip van Winkle» (l’uomo che si sveglia e si accorge che un’infinità di tempo è passata), l’altro «L’impiccato di Owl Creek» di Ambrose Bierce (un uomo crede di star vivendo un’avventura che si svolge nel tempo, mentre invece tutto accade nell’istante in cui lui muore). Sono due discrasie tra tempo individuale e tempo collettivo che producono un’angoscia feconda, la quale troverà numerose incarnazioni successive nella letteratura e nel cinema. […] In fondo, Burton si situa all’incrocio dei due paradigmi, risalendo tra l’altro esplicitamente a una sorta di loro origine omerica. Bloom è Ulisse (come già lo era il suo quasi omonimo Leopold Bloom), che torna periodicamente dai suoi Penelope e Telemaco e viene continuamente sedotto da sirene, Circi, Feaci, in una versione moderna, baracconesca e freak.

[...] Di Edward Bloom non ci importa mai, e non parrebbe che importi granché a Burton; davvero lui, come dice nel film, «non esiste al di fuori delle storie che racconta». Eppure, se fino a un certo punto la cornice non pare vivere di vita propria, c’è un momento in cui il senso di essa diventa chiaro. È il finale, bellissimo, in cui Burton rinuncia alla fiaba e fa rispuntare tutti i personaggi del Luna Park in abiti civili e in trucchi senili. La scena della morte di Bloom è durissima, spietata, e il funerale è uno dei grandi momenti del cinema di questi anni, in cui il regista si spoglia quasi della propria magia ammettendo per la prima volta la durezza del reale. A questo punto il film si rivela anche per quello che era: il sogno della piccola borghesia della provincia americana, di un mondo in cui è possibile riscattare le ipoteche e le macchine tornano nuove fiammanti. Un po’ una versione contemporanea di La vita è meravigliosa, un’ostinata rivendicazione del mito della “piccola città” e dell’individualismo solidale.

[...] Da burtoniano della primissima ora, devo confessarlo: Big Fish, anche dopo più visioni, continua a lasciarmi con un senso di insoddisfazione e di sconcerto, al di là della sua statura immaginifica enorme in un cinema americano di nani. Come una diffusa stanchezza. Sarà che questo è un film ben poco infantile, senza neanche il gioco dark da adolescenti cui eravamo abituati, senza quel tocco femminile che faceva delle Winona Ryder e dei Johnny Depp il simbolo di un cinema cupo e feticista, innamorato della morte e irriducibile alla “normalità”. Invece (con l’eccezione del suo unico film “adulto”, Ed Wood), è come se il meraviglioso Burton fosse passato dall’adolescenza dei suoi capolavori alla geniale e triste senilità di questo film, che riepiloga, si parla addosso, si accomiata continuamente dal proprio mondo senza più la voglia di farsi fiaba.