Blade Runner di Ridley Scott

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Giovedì prossimo uscirà nei cinema di tutto il mondo Blade Runner 2049, sequel del cult di Ridley Scott. Non è un caso, quindi, che questa sera, alle 21.15, Italia 1 mandi onda proprio l'originale del 1982 (non il director's cut che uscì anni dopo). In attesa del film di Denis Villeneuve, siamo andati come di consueto a rovistare negli archivi e abbiamo trovato una recensione di Adriano Piccardi («Cineforum 220»). 


Dopo Alien, Blade Runner ci propone ancora una vicenda di fantascienza, anche se non più inscenata nelle profondità dello spazio interstellare. Questa volta i fatti si succedono nell'universo urbano di una megalopoli (Los Angeles, nella versione italiana), immaginata quale potrebbe essere in una data ben precisa e non molto lontana, il 2019, ossia tra meno di quarant'anni. Città (o per meglio dire “ambiente”) sviluppata, in estensione orizzontale e in proiezione verticale, ai limiti dell'invero· simile, secondo stratificazioni e affastellamenti architettonici successivi, in cui la contiguità tra vecchio e nuovo produce forme di simbiosi e dipendenze, putrefazioni e gestazioni imprevedibili: una struttura in cui l'ammucchio ha por- tato alla saturazione degli spazi, ma contemporaneamente ne ha aperti di nuovi, cubicolari, tentacolari, a livello del suolo e sicuramente del sottosuolo. Ne deriva una radicale negazione di qualsiasi rassicurante geometria “razionale”, di fronte all'imporsi del labirinto, le cui pareti a loro volta non sono lisce ma piene di rientranze e di anfratti: buchi in cui rintanarsi ma anche possibili trappole o nascondigli da cui può fuoriuscire il pericolo, l'agguato. […]

In questo spazio immenso e insieme angusto, originato dall'accumulo indiscriminato, si muove una folla parossisticamente composita: vi si trovano stratificate più o meno a caso razze, culture, lingue, comportamenti, mode, “classi sociali”, con un effetto finale uguale a quello provocato dalla struttura urbana in cui fluiscono incessantemente. È proprio tra le pieghe di questa superficie umana così spettacolarmente satura, in cui ogni alterità risulta alla fine omologata e aggiunta – stipata – alle altre nel raggiungimento di una paradossale integrazione, che possono nascondersi alcuni esseri (realmente diversi), dell'esistenza dei quali solo poche persone sono a conoscenza: chi ne presiede alla costruzione e chi ne presiede alla distruzione. […] La macchina da presa di Ridley Scott si cala in questo universo prossimo venturo con la pignoleria e l'ossessionata attenzione al particolare di un entomologo, dai primi campi totali al dettaglio della squama di un serpente artificiale, per dirci che da lì non esistono strade di ritorno.

C'è un punto di contatto tra il genere “nero” e la fantascienza, ed è individuabile nella centralità della figura dell'alieno, dell'altro come elemento perturbante che necessita di essere eliminato per poter ritornare alla situazione di (falso) equilibrio iniziale. Nel primo caso si tratta del responsabile (o dei responsabili) della trasgressione che provoca l'intervento dell'investigatore. Nel secondo, può trattarsi del tipico scienziato che finalizza la sua conoscenza alla mania di potere, ma, più esemplarmente, di un essere realmente alieno (cioè proveniente da un mondo diverso da quello del comune terrestre) che, proprio in quanto tale, richiede una saluta- re reazione di rigetto e di espulsione-eliminazione.

L'idea geniale che presiede alla vicenda di Biade Runner è che queste diverse caratterizzazioni dell'alieno vengono riunite nelle medesime persone, giustificando così dall'interno e in modo scientificamente plausibile la stessa unificazione in atto tra i due generi narrativi. Non solo. l replicanti che si introducono dallo spazio esterno dentro i confini a loro interdetti sono apparentemente del tutto uguali agli umani, poiché in effetti si tratta proprio di creature prodotte da questi ultimi: il rapporto umano/alieno viene fatto cortocircuitare in modo da portarne metaforicamente allo scoperto l'ambiguità più riposta.