Caro diario di Nanni Moretti

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Questa sera, alle 21.10 su La7, comincia un ciclo di otto film di Nanni Moretti, prima dei quali sarà lo stesso regista romana a presentare la pellicola. Si comincia con Caro diario, e noi siamo andati a vedere cose na scrisse Emanuela Martini nel 1993, sul numero 329 di Cineforum.


[...] «Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne!», rimbecca Moretti riprendendo il giro in Vespa con colonna musicale di Leonard Cohen.

Comincia così, con questa [ormai celebre, ndr] dichiarazione estetica e ideologica molto decisa, il settimo lungometraggio di Nanni Moretti, filmato in momenti diversi, e dove l'autore racconta sé stesso in prima persona, senza lo schermo dell'alter ego Michele Apicella (o don Giulio). Ed è curioso che proprio Caro diario, che è esclusivamente autobiografico (e molto intimo), sia il film sul quale incidono meno le idiosincrasie, gli scatti, le ossessioni del personaggio Nanni Moretti.

Tutti questi elementi ci sono, naturalmente: dalla fobia per il cinema italiano e per i film dalla violenza gratuita (dove maltratta Henry, pioggia di sangue di John McNaughton, che invece merita un occhio più calibrato, fosse solo per il suo taglio "entomologico") all’insofferenza per le intemperanze linguistiche (e perciò teoriche) di una certa critica, dal fastidio per le mode culturali anni '80 (radical chic, sinistresi, ecologico-misticheggianti) allo stupore per la stupidità della gente, alla rabbia per l'arroganza un po' viscida delle categorie dei privilegiati (in questo caso, i medici).

Ma è come se l'ironia avesse preso il sopravvento sul furore, come se Nanni Moretti avesse deciso che sarà proprio una risata (quella di Michele bambino alla fine di Palombella rossa?) ad averla vinta su tutti questi obbrobri. Si può anche andare a chiedere a un signore stupefatto perché è andato ad abitare a Casalpalocco negli anni '60, proprio quando Roma era una città bellissima; ma lui non capirà di cosa state parlando. Resta allora una considerazione molto triste: «Anche in una società più decente di questa, io mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano, su un'isola deserta, perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza». E anche questa tirata viene interrotta da una stoccata ironica, il «Vabbe', auguri» dell'interlocutore, uno sconosciuto bloccato a un semaforo.

Persino a Moretti scappa da ridere. Un film acquietato perciò; non perché Nanni Moretti sia sceso a compromessi o si sia adattato a quella realtà che non gli è mai piaciuta; ma piuttosto perché sembra aver accettato il proprio snobismo forzato (inevitabile, data la nostra situazione culturale, sociale e politica, per qualsiasi essere pensante e morale), e deciso di coltivare una solitudine protetta da pochi amici. Dopo il sovraffollamento di postulanti, giocatori, imbroglioni di Palombella rossa, si ritorna all'isolamento di don Giulio; non don Giulio in Patagonia o in un'isoletta delle Eolie, ma a Roma, nel suo habitat.

Non si tratta di tolleranza; e neppure si sono smussate le punte estreme dell'attitudine moralista dell'autore. Semplicemente, a quarant'anni cambiano molte piccole cose: al di là dell'evento della malattia (tutt'altro che trascurabile, è ovvio) a quarant'anni, per esempio, si scopre che non si imparerà più a ballare benissimo, come Jennifer Beals (o a nuotare, o a giocare a pallanuoto benissimo, come invece Moretti sa fare). Ci si accorge, in pratica, che non c'è più tempo per tutto (neppure per la Patagonia, forse). Quella che può venir scambiata per tolleranza, è una salutare faccenda di selettività. Si può ancora tentare di cambiare il mondo, ma si sa per certo che sono sforzi buttati al vento quelli per cambiare chi pensa, sente e vive diversamente da noi. La selezione diventa l'unica arma di difesa e di tranquillità. Per gli altri, sono sufficienti una battuta e una scrollata di spalle (quando, naturalmente, non abbiano un ruolo sociale che li rende pericolosi, come i medici, nei confronti dei quali, invece, scatta ancora l'indignazione). La solitudine diventa un momento chiave delle giornate.