Fargo di Joel e Ethan Coen

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Questa notte, su Rai 1, alle 2:35 andrà in onda Fargo. Sesto film scritto e diretto dai fratelli Coen nel 1996. Su Cineforum 355 (acquistabile qui) dedicammo al film uno speciale. Ripubblichiamo, qui sotto, alcuni estratti dell'articolo scritto da Michele Fadda.


Non è che mi manchino le cose da dirti. Forse è solo una cosa troppo grande (troppo piccola?) per essere detta, e il gelo blocca lingua e penna, anche se alla fine è tutto questo freddo che spinge a parlare... Se n'era accorto Kubrick in Shining, mentre lo scrittore senza parole, perso nell’albergo-mausoleo vuoto, tra le nevi vergava sul foglio il ripetersi infinito di una medesima litania (“All work and no play makes Jack a dull boy, all work and no play…"). Certo, direte, è nel caldo soffocante che si nutrono prima l'afasia e poi le centinaia di pagine scritte da Barton Fink, tanto "lavoro e non gioco" che fanno dell'aspirante sceneggiatore ebreo un "dull boy": ma, in fondo, per raccontare cosa? Qui, in effetti, è meglio non farsi ingannare. Solo la pagina bianca è una distesa nevosa. E se da un lato bisogna avere un bel po' di freddezza per scrivere quest'articolo, dall'altro è necessario essere provvisti di uno sguardo assolutamente gelido per dire tutte le cose che i Coen Bros., come loro consueto, apparentemente non dicono.

Non per nulla Joel ed Ethan sono del Minnesota, terra piena di neve e dagli inverni interminabili. In Fargo, i Coen tornano a casa, lasciano i sogni e gli incubi in cui normalmente transitavano, approdano al "realismo", e per raccontare una "storia vera" scelgono il freddo a loro familiare. La patria ritrovata... Solo tra i ghiacci può esistere un villaggio che si chiama Brainerd, solo qui i cittadini possono vivere veramente la loro condizione di dull boys, di apparenti tontoloni più genuini del Tim Robbins di Mr. Hula Hoop. Sembrano cartoni animati, o dei clown, ma per avvertire il loro intimo radicamento alla terra del nord basta ascoltare la cadenza della loro parlata originale (assente, è ovvio, nella versione italiana), un vernacolo cantilenante e quasi scandinavo che è pura enunciazione, significato che esiste solo come significante. Infatti c'è gente che parla, con l'eterno sorriso sulle labbra, tra clichés e frasi fatte, ma è gente che non dice granché, o almeno che non dice tutto quello che vorrebbe dire. Nel freddo si parla solo per parlare, sospesi tra gli estremi di chi non sta mai zitto (Buscemi) e chi tace di continuo (Peter Stormare) […] gente cortese e scortese, gente finta, gente stereotipo (che non smette mai di mangiare), gente banale che non ha niente di interessante da dire: certi americani sono proprio così. E quando qualcuno sembra farti un discorso compiuto raccontandoti della sua vita, non ci si può fidare, perché è solo il delirio di un malato di mente come Yanagita.

Una parola di troppo, una parola di meno, una parola che non dice. Come questa vicenda, così perfetta e così imperfetta, una "storia vera" ma senza senso. E' vero che i Coen hanno ideato una sceneggiatura calibratissima che sembra controllare tutto, ma non bisogna dimenticare che l'intero film è costruito su scampoli narrativi allo stesso tempo indipendenti e legati tra loro, ma comunque incompiuti. Ogni porzione di racconto è colta in medias res, e non si va molto oltre. Quando Jerry arriva a Fargo già molto si è deciso, ma nessuno ci darà mai una spiegazione esaustiva del suo fallimentare progetto finanziario; dello svolgersi del sequestro ci vengono fornite poche notizie, e il gesto omicida finale non è causato da una motivazione plausibile. Tutto risulta raggelato, come la vita familiare di Marge. Sembra una narrazione tradizionale, ma in realtà non ha sviluppo e non porta da nessuna parte. Quasi che la distesa nevosa imponesse unicamente questo winter tale, che dice tanto ma non dice tutto per dire qualcosa, o che non dice nulla per dire "il nulla”.

[…] solo uno sguardo che non vede tutto (in un Minnesota che non c'è) poteva contemplare il nulla, il vuoto che Joel - una volta tanto senza giri di parole- ammette di voler rappresentare […] Difficile quindi dire dove guardino i personaggi di Fargo. Hanno uno sguardo perplesso, vagamente catatonico, che certo guarda fuori dalla cornice ma senza una direzione per noi riconoscibile. L'unica cosa che osservano con sicurezza - ma non si sa con quanta attenzione - è lo schermo di un televisore, neppure tanto ben sintonizzato. Difficile anche dire se questi occhi abbiano ancora la forza di distinguere nitidamente gli oggetti. Più corretto è ipotizzare una messa a fuoco non perfetta, in cui i contorni delle cose non sono più così netti e iniziano a sfumare. Forse non è solo la linea tra il cielo e la neve che si assottiglia, ma è l'occhio ebete/perplesso ormai spalancato che, come un diaframma troppo aperto, annulla sempre di più la profondità di campo fino a farsi sommergere dal bianco e dalla luce. Al pari di una fotografia sfuocata e sovraesposta, prodotta da un obbiettivo incrostato di ghiaccio.

[…] I Coen hanno il cinismo necessario a bloccare ed inebetire il nostro sguardo, ma anche la benevolenza di invitare lo spettatore - nulla lui stesso - a contemplare comunque il gelo, questa risposta e questa visione che non c'è più. Come Barton Fink ritornava a scrivere imparando ad ascoltare, così Fargo ci impone di ascoltare il vento che soffia sempre uguale su questa terra spoglia e bianca. In fondo si tratta solo di sentire sguardi che non riescono a vedere, o di vedere voci che non dicono, per intendere l'animo d'inverno racchiuso nel cuore del cuore di questo paese. Il "segreto" infatti sta nella neve. Vorrei potertelo dire, se non facesse così freddo...