Gangs of New York di Martin Scorsese

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Questa sera alle 20:30 su Rai Tre (canale HD 503) Gangs of New York di Martin Scorsese. La violenza, la paura, l'odio nella New York della seconda metà dell'800 nel quartiere di Five Points. Cineforum 423 gli dedicò uno speciale con gli articoli di Piccardi, La Polla, Cattaneo, Morreale e Mancino. Pubblichiamo qui alcuni passaggi del testo di Emiliano Morreale.


Aborto di una nazione

«La civiltà va a rotoli». (Bill il macellaio)

«Una città piena di tribù e di capi bande, di ricchi e di poveri. In realtà, non era nemmeno una città. Era una fornace, da cui un giorno sarebbe sorta una città». Gangs of New York è il film più politico di Scorsese e uno dei pochi film intimamente politici degli ultimi tempi. È anche il suo film più esplicitamente storico, e anche il suo primo film laico. (Nonostante l’appello iniziale a San Michele, questo è anche il primo film laico e nichilista di Scorsese. Nella sua cieca furia, non ci sono buoni o cattivi; gli eroi brillano di tetra luce, non portano alcuna virtù, ma solo una cieca forza vitale di odio). Il primo paragone che viene in mente è, ovviamente, con il Michael Moore di Bowling for Columbine. Analogia di contenuto, anzitutto: sorprendentemente, entrambi mettono la fondazione dell’America sotto il segno della violenza, ma più precisamente della paura e del suo mantenimento. Il film di Moore non era un film sulle armi in America, ma sull’industria della paura e dell’insicurezza [...].

Se si va al cuore dell’essenza dell’America, al suo cuore di tenebra, si trova la violenza. La paura. E l’odio razziale. Questi non sono incidenti di percorso, non sono traviamenti dallo spirito di un’America vera. Queste cose sono l’America. La visione (in tutti i sensi) di Scorsese è l’opposto di tutte le battaglie progressiste condotte in nome dell’America. [...] Evoca i fantasmi di una nazione, e nel farlo è costretto a una titanica operazione figurativa: reinventarsi visivamente qualcosa di mai visto.

Il 1863, al cinema lo conosciamo tutti: è quello del western, della guerra di secessione, al limite della civiltà sudista con le sue architetture georgiane. Ma la metropoli americana dell’800 non l’avevamo mai vista, e d’ora in poi dovremo immaginarcela anche attraverso lo sguardo allucinato di Scorsese. Per creare l’immagine visiva di un tempo storico, Scorsese ricorre esplicitamente a referenti letterari europei: Charles Dickens (che aveva visitato i Five Points in quegli anni e ne aveva lasciato vivida traccia negli «Appunti americani»), Victor Hugo con i suoi superuomini delle città sotterranee, e soprattutto, sullo sfondo, William Shakespeare,[...]. Shakespeare serve a Scorsese anche come esempio di analisi della rappresentazione, di rapporto tra la rappresentazione e i meccanismi del potere. Scorsese rimane anzitutto un antropologo, e tutto il film è un’indagine sulle forme spettacolari “basse” dell’epoca, dal vaudeville alla canzone ai teatri etnici (cita addirittura i melodrammi teatrali, coevi del cinema muto, in cui si narravano le gesta di Bill il macellaio e la sua fine avvolto nella bandiera a stelle e strisce dicendo: «Muoio da vero americano»), ma soprattutto lo interessano i modi in cui la storia si fa rappresentazione, la violenza si organizza e si struttura. Come gli scrittori dell’Ottocento, Scorsese ama i superuomini; non è attratto dalle masse ma dalla loro coreografia. Tutto il film è un susseguirsi di rituali: dalla sfida iniziale allo spettacolo del lancio dei coltelli, dai balli alle parate e al teatro cinese, dall’esposizione delle candele alle finestre alla sfida finale, tutti nel film non fanno che compiere azioni rituali. La politica non conta niente, per Scorsese, ma contano moltissimo le azioni simboliche, i rituali che aggregano, gestiscono e producono la violenza collettiva. Lo stesso Macellaio è anzitutto uno showman, lanciatore di coltelli e grande istrione (si veda come finge il pianto per la morte del coniglio). L’America, sembra dire Scorsese, è società dello spettacolo ben prima della tv e del cinema, lo è in un senso osceno e primitivo. Non a caso assume così tanta importanza, nel film, il tema dello sguardo [...].

Ma l’imagery tutta europea del film, di questa New York che è molto Parigi e Londra, serve anche a un’altra scelta teorica, quella di mostrare il terreno comune a Europa e America in una violenza fondativa e sempre ritornante (qualcuno parlava di una Manhattan «shakespeariano-balcanica»). L’America è l’Europa, di questo Scorsese rimane convinto. [...] L’America di Scorsese non è piaciuta agli statunitensi anche per questo: perché è come se fosse l’incubo di un europeo nutrito di cinema hollywoodiano (le bettole sono quelle esotiche ricostruite in studio da Sternberg nei I misteri di Shangai, o da Lang nel Covo dei contrabbandieri, le strade quelle dell’elegiaco Park Row di Fuller, altro maverick vagamente accostabile allo spirito di questo film), e a questo punto chi può dire dov’è l’Europa e dove l’America? La stessa idea di girare a Cinecittà con figuranti italiani, e in esterni in Italia, mantenendo senza camuffarli troppo elementi geograficamente riconoscibili (Villa Borghese, la cripta dei Cappuccini di Napoli) rientra in questa vertigine geografica. Che va di pari passo con un cosciente detournement cronologico. Spesso gli avvenimenti sembrano più recenti o più antichi di ciò che vediamo. L’inizio sembra L’ultimo dei Mohicani, o addirittura qualcosa di medievale. I tamburi tribali si mutano senza soluzione di continuità negli affondi dub. Molte cose, anche storicamente accertate, hanno il sapore dell’anacronismo. Tutto il film sembra abitato da più tempi cronologici confliggenti tra loro. E in tutto ciò, Scorsese non nasconde la sua simpatia per un’epoca eroica del male, sostituita (come già in Casinò) dalla banalità del male, dalla politica e dalle mezzemaniche. L’unico riferimento cinematografico ravvicinabile, a ben vedere, è proprio Griffith. Non solo per la imagery (difficile non pensare a Giglio infranto, ma soprattutto al crudissimo realismo dei Moschettieri di Pig Alley), ma anche perché Gangs of New York è costruito anche con un uso inconsueto del montaggio alternato, già nella scena del teatro cinese, e poi in un finale allucinato in cui seguiamo i preparativi dello scontro tra Conigli Morti e Nativi mentre monta la rivolta popolare contro la coscrizione. La cosa sorprendente è che il montaggio alternato riletto da Scorsese è sì di purissima derivazione griffithiana, ma implode: non conduce da nessuna parte, le due facce spazio-temporali non si incontrano mai e non c’è una risoluzione. Addirittura il film brucia tutta l’ossessione di vendetta su cui è costruito: la violenza cieca, la pura vita dei suoi capibanda, viene sepolta dalle macerie di una Storia più grande.

Non solo gli Stati Uniti sono nati «nel sangue e nella tribolazione », ricorda Scorsese. Ma sono nati sullo sfinimento e le marcescente di una società. Nati morti. Altro che frontiera, e che gioventù. La griffithiana Nascita di una nazione è un parto sterile. Cameron Diaz, con il corpo solcato da una lunga ferita, è una madre infeconda per l’America. Dopo le dissolvenze incrociate che ci portano alla Manhattan delle Twin Towers, manca solo che si svegli Ernest Borgnine col suo davanzale fiorito, nel piccolo capolavoro di Sean Penn in 11 settembre 2001.