La grande bellezza di Paolo Sorrentino

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Più noiosi di quelli che esaltano sui social La grande bellezza che passa in tv, solo quelli che demoliscono La grande bellezza che passa in tv” (Federico Gironi). E proprio questa sera il film di Paolo Sorrentino verrà trasmesso su Iris (canale 22) alle 21:00. Cineforum 526 gli dedicò uno speciale con gli articoli di Pier Maria Bocchi, Anton Giulio Mancino e Tullio Masoni. Pubblichiamo integralmente l'ultimo dei tre, invitandovi a leggere anche i restanti (vi segnaliamo che in occasione della vittoria dell'Oscar come miglior film straniero pubblicammo sul sito il pezzo di Bocchi).


Roma in cartolina

L’analfabeta minimalismo della techno-dance incrociato con ritmi latini sulle terrazze per le feste di una lurida mondanità e l’eco del sacro di Lele Marchitelli, di Preisner…; il barocco funereo dei rossi, dei neri e degli ori consumati dall’incenso, e quello che trova ragione in una impensabile sopravvivenza; i nobili che si noleggiano per le liturgie dei maneggioni e i nobili divenuti marmoreo enigma nei musei archeologici. Due strati. Una superficie fin troppo felliniana, spesso mutuata da Scola e da una scrittura di commedia e satira consunte, una profondità in chiaro (di tramonti, anche, e cieli già concepiti da Lucio Fontana a opporre – dialogando? – i monumenti di Giovanni e dell’architetto papale Carlo) che prende sul serio l’ovvio dominio della morte. In mezzo Jep Gambardella: «Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza… e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile…», che già aveva parlato nella confessione televisiva di Tony Pisapia in L’uomo in più: «…mi ricordo tutti i teatri in cui mi sono esibito, tutte le canzoni che ho cantato, tutti i camerieri, tutti i flash dei fotografi e, sui dischi, gli autografi; i ristoranti, le risate, le lacrime degli spettatori… Dicevano che ero bello: io non mi sono sentito mai bello, io mi sentivo potente. Non me n’è fregato mai un cazzo di nessuno… Io me la ricordo tutta la cocaina che mi sono tirato…».

Forse possiamo lasciar perdere i cedimenti, la nostalgia o la tenerezza che alterna il ricordo dell’iniziazione amorosa con il “prodigio” della monaca centenaria che si arrampica in ginocchio per la Scala santa; che Gambardella scriva o meno un nuovo romanzo – dopo il lontanissimo esordio dal quale ha ottenuto credito perenne – con ciò vincendo la partita persa da Marcello in La dolce vita (1960) e l’impotenza del regista di 81/2 (1963) importa poco. Troppe volte, in La grande bellezza, l’apoteosi si è inutilmente affacciata dalla sequela di scene madri per credere a una conclusione buona o cattiva. Conta invece, per me almeno, la sfida di un barocco che si afferma col vuoto, essenzialmente. Gli spazialisti vedevano negli aerei a reazione (la loro scia in cielo un segno già tagliato nell’universo) uno dei nuovi mezzi per l’arte, e attribuivano ai barocchi del sei-settecento la profezia: «…fanno un salto in questo senso: lo rappresentano [lo spazio, ndr] con una grandiosità non ancora superata e aggiungono alla plastica la nozione del tempo», recita il Manifesto bianco del 1946. Non so quanto intenzionalmente Sorrentino applica ora quella “dottrina” per giungere, forse, a un inusitato rovescio. Barocco di suo, per temperamento e vocazione visionaria (ma come in Il Divo [2008] ripropone anche le sacre simmetrie medioevali) con quest’ultimo film si aggancia alla teoria e alla scuola.

La grande bellezza, almeno per me, comincia dal trailer. Mi chiedevo se il film intero avrebbe avuto quel tempo di attesa, se le cartoline di Roma si sarebbero ripresentate con lo stesso incanto: una sublimazione che Allen ha confusamente azzardato per “cinearcheologia” con To Rome with Love (id., 2012) e a Nanni Moretti è riuscita, credo, in Habemus Papam (2011). Incanto, dicevo, e silenzio. Il tempo di sguardo che l’autore esercita, superando il barocco solo stilistico (e filmico) per scoprire una monumentalità solenne, ormai “di natura” e anche feriale – poiché la quiete marina delle albe sui Lungotevere esiste, può essere testimoniata – riprende come dicevo l’affermazione programmatica del Manifesto bianco ma, anziché raccoglierne il culto post-futurista opera una inversione: rinuncia a salire e a espandersi ottimisticamente in nome della scienza e della tecnologia per una stasi metafisica nella quale il destino della morte è già percepibile dal senso di ciò che, grandiosamente, rimarrà. Per questo il tempo di sguardo trovato dal regista si avverte contemplativo quanto fatale e ineluttabile, cioè pessimista e immobile come la grazia. È un caso, d’altronde, che lo stesso Fontana si sia cimentato in forme barocche contemporanee ma chiaramente ispirate alla tradizione (la Via crucis, ad esempio) e che certi suoi “tagli” comunichino, alla fine, più tensione mistica che fiducia nelle progressive sorti della modernità?

Jep Gambardella potrebbe tornare alle proprie origini abbandonando il caos mondano che credeva di dominare – «…non volevo tanto partecipare alle feste ma avere il potere di farle fallire…» – e scriverà un secondo romanzo, con ciò celebrando una catarsi, oppure no. Non sappiamo se continuerà a festeggiare i compleanni, cioè la propria vecchiaia, accentuando ogni volta lo stordimento, o se invece giungerà a “raccontare il niente” com’era nella massima ambizione di Flaubert. Sappiamo intanto, dal film di Sorrentino, che il niente segreto della poesia può darsi con lo spettacolo di una città che risorge dalla notte o, dopo il lungo indugio dei suoi tramonti, alla notte si abbandona. Dalle cartoline, dunque, al vero del luogo comune: “Roma città eterna”. Sì: eterna.