Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris

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Questa sera su Paramount Channel (canale 27) alle 21:15 Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris. La commedia indipendente, presentata al Sundance Film Festival nel 2006, divenne un successo mondiale ottenendo incassi da record. Su Cineforum 458 Jonny Costantino ne scriveva la recensione di cui pubblichiamo dei passaggi.


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In ogni stagione cinematografica tende a non mancare quel piccolo film indipendente che riesce a conquistare un po’ tutti, o meglio: a non scontentare nessuno, salvo i più strenui tra i nemici di un cinema il cui principale obiettivo extramercantile sembra quello di mandare a casa uno spettatore edificato e consolidato nei più sani dei valori di cui è portatore. In linea di massima, la ricetta è sempre la stessa: buona fattura complessiva, cast azzeccato, astuti rimandi all’attualità, aura politically correct, copiose spruzzate di déjà-vu, immancabile happy end. Per quanto concerne l’autunno 2006, salvo exploit a venire, il film che ha tutte le carte in regola per aggiudicarsi questo primato è proprio Little Miss Sunshine, uscito sui nostri schermi a fine settembre dopo aver trionfato al Sydney Film Festival e mietuto consensi negli States, tanto da far gridare al miracolo il San Francisco Chronicle. La regia è di Jonathan Dayton e Valerie Faris, premiata coppia di filmaker e produttori (in qualità di fondatori della Bob Industries) al loro primo lungometraggio [...]

La confezione del prodotto è accurata: la regia è ammiccante ma non sfacciata, i messaggi sono espliciti ma non ridondanti, il ritmo incalzante seppur non travolgente, la fotografia e il montaggio in tono con l’insieme, la direzione degli attori (tutti all’altezza) giocata sui punti di forza degli interpreti, la costruzione dei caratteri adeguata all’evoluzione interiore dei rispettivi personaggi… insomma tutto è (fin troppo) al proprio posto e ben dosato all’interno di un’efficiente macchina affabulatoria che non rinuncia a nessuno dei classici espedienti convenzionali per colpire lo spettatore “nel tenero”. Una tale preoccupazione di efficacia dell’ingranaggio ha però i suoi contro, nella misura in cui diventa proprio il buon funzionamento del dispositivo spettacolare a minare la veracità delle dinamiche emotive che si attivano tra i protagonisti, strappandoli al rango di persona che sono sempre lì lì per conquistare e ricacciandoli nel coro ben assortito di cui restano semplici funzioni. Questo discorso può esser meglio compreso facendo notare come i più vistosi cedimenti della sceneggiatura coincidano con quelli che dovrebbero rappresentare i suoi punti chiave, ovvero con certe impennate dell’azione (come il trafugamento del cadavere del nonno, tanto rocambolesco quanto forzoso) o con improbabili coincidenze [...]. E si tratta di cedimenti che, minando lo statuto di verosimiglianza del film, finiscono inevitabilmente per smontare il contenuto di umanità dei personaggi.

Detto ciò, e dunque ridimensionato il fenomeno, va riconosciuto come il performarsi degli affetti e delle relazioni in gioco sia reso attraverso una comicità che sa contemperare momenti di gustosa grevità (le sfuriate del nonno) e pennellate più sottili e icastiche (la silenziosa intesa, e il suo divenir complicità, tra zio e nipote). Ed è proprio nelle oscillazioni di registro che risiede il baricentro di questa commedia gentile e satirica che ama deragliare, ma per tornare subito nella carreggiata d’elezione, ora nel grottesco (come nel caso dell’incontro col poliziotto erotomane il cui ghigno eccitato ricorda quello di Gary Busey nei panni dello sbirro depravato di Paura e delirio a Las Vegas) ora nel dramma (si pensi alla morte del nonno o, ancor più, alla scoperta di Dwayne di essere affetto da daltonismo, difetto che sbriciola la sua aspirazione a far carriera nell’aeronautica).

Pur sprovvisti della capacità disturbante del Solondz di Happiness, quanto dell’umorismo straniante dell’Anderson dei Tenenbaum (volendo accostare il ritratto famigliare in questione ad altre due commedie degli ultimi anni incentrate su modelli made in Usa di famiglia sui generis), Dayton e Faris riescono a creare un microcosmo leggibile come cartina tornasole di ciò che lo circonda e portano a destinazione il furgoncino degli Hoover senza mai perdere di vista la traiettoria morale e il bersaglio critico del loro viaggio. Le settecento miglia che si frappongono tra Albuquerque e Redondo Beach sono il tragitto lungo il quale ognuno di loro incrina il proprio bozzolo e si apre a una più autentica comunicazione con l’altro. [...] È questo il bottino esistenziale sudato on the road dagli Hoover, ognuno a modo suo – un approdo comune che, in quanto tale, esige di un gioco di squadra che culmina e trova la sua prova del nove in una sala dell’hotel Ramada Inn, dove si svolge il patetico falò delle vanità in formato mignon “Little Miss Sunshine”.

Olive sta per fare il suo numero. I famigliari cercano di dissuaderla, consci che il suo essere soltanto una bambina non può reggere il confronto con le performance compiute delle caricature di donna, dalla sfilza di top model in miniatura che l’hanno preceduta mandando in visibilio un pubblico di genitori ancor più agghiaccianti. Ciò che quindi si preannuncia è la mortificazione degli sforzi di Olive, un’uscita di scena magari a testa alta ma mesta, come quella da Cinecittà della piccola Maria del viscontiano Bellissima, le cui lacrime suscitano gli sghignazzamenti del regista e della troupe che stanno rivedendo i giornalieri dei provini. Ma ecco il colpo di scena: Olive sale sulla ribalta vestita da ometto e, dopo aver dedicato il numero al nonno che glielo ha insegnato, appena attacca la musica si lancia in uno strip-tease così allusivo da sconcertare e indignare gli astanti. Cercando di por fine a quella profanazione del concorso, gli organizzatori mandano Edwin sul palco per interrompere la figlia. Ma questi proprio non se la sente di fare il loro gioco e, dopo un attimo di esitazione, inizia a dimenare anche lui il bacino accanto alla piccola, finendo per trascinare tutta la famiglia in quella disdicevole danza che rovina la festa e ghiaccia la sala, eccetto un paio di estimatori. Forti della propria differenza, finalmente consci di ciò a cui non vogliono appartenere, gli Hoover attuano così, radiosamente, un rilancio simbolico che mette alla berlina quel teatrino mortuario in cui si celebra il trionfo del conformismo, del fanatismo per la belluria e il successo, di quell’american beauty che cancerifica e mostrifica i connotati di una buona fetta non solo d’America.