Non bussare alla mia porta di Wim Wenders

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Questa notte, su Rai Movie, alle 2:40 andrà in onda Non bussare alla mia porta. Film del 2005 diretto da Wim Wenders. Scritto insieme a Sam Shepard (così come Paris, Texas). Ripubblichiamo alcuni estratti della recensione a firma di Antonio Termenini che uscì su Cineforum 449 (acquistabile qui).


Non bussare alla mia porta segna il ritorno definitivo di Wim Wenders, dopo anni di tentennamenti, di ripensamenti, di fughe o ripari nella nicchia della speculazione filosofica e morale, nella riflessione teoretica, nella personale esposizione dei massimi sistemi che interessano il genere umano, dal significato della violenza (Crimini invisibili) alle sorti del cinema, (Lisbon Story) dalla metafisica sui reietti dell’umanità (Million Dollar Hotel), a un cinema pienamente umanista, che si concentra e trova linfa vitale nei personaggi, nei loro scacchi sentimentali, nei continui ripensamenti sul loro passato e sull’incerto futuro che li aspetta, sulle loro passioni. Un cinema, quindi che abbandona la speculazione e che torna all’empatia dei sentimenti, alla nostalgia dell’amore che fu. […]

Il primo aspetto che differenzia questo Wenders da quello solipsistico e predicatorio di quasi tutta la sua produzione anni ’90 è che anche in Non bussare alla mia porta i personaggi di contorno sono molti, ma ognuno, appare ben caratterizzato, mai ridotto a macchietta o a stereotipo. […] Certo, Wenders non riesce a trovare la magia dei suoi film migliori, né le atmosfere di Paris, Texas, il titolo che più appare simile a questa sua ultima fatica. Pensate a come il regista tedesco inquadra gli sterminati e ipnotici paesaggi dell’Ovest: se negli anni ’80 essi suggerivano attraverso gli sguardi dei personaggi l’ideale correlativo oggettivo delle loro sensazioni, dalla malinconia al senso di abbandono, facendone spesso da cassa di risonanza enfatica, qui c’è sempre una parola in più, o meglio, il timore che le immagini non siano sufficienti a restituire la magia di un luogo, il senso sconfinato di un orizzonte che non si intravede. […]

La ricerca di se stessi

Il viaggio si può considerare il topos per eccellenza del corpus filmico wendersiano, da Nel corso del tempo ad Alice nelle città, da Fino alla fine del mondo a Lisbon Story. Non bussare alla mia porta non fa eccezione. Quando, nel bel mezzo delle riprese di un ennesimo western Howard viene a conoscenza dell’esistenza di un figlio di cui non sapeva nulla, la sua fuga dal set e la sua ricerca diventano un pretesto per fare ordine in una vita piena di buchi, di zone d’ombra, di irregolarità varie. Il viaggio in Wenders è strumento di conoscenza, di introspezione, alla fine del quale nessuno sarà mai come prima, prima di partire. In questa fase emerge il Wenders migliore. Se altrove il cineasta tedesco si era affidato a un estremo ed irriducibile impeto didascalico, qui Howard torna al passato, considerandolo criticamente attraverso piccoli episodi, una quotidianità spicciola, dettagli significanti, senza, per questo, rifugiarsi necessariamente nella metafora. Il viaggio lo porta a scoprire un’America che pensava di conoscere perfettamente e che invece è cambiata, mutata radicalmente nei costumi, nelle abitudini, anche in quei piccoli centri che tutti i sociologi e i politologi considerano il ventre molle, cristallizzato, impermeabile a qualsiasi cambiamento degli States. Quando incontra il figlio che non pensava di avere rimane stupefatto non tanto per il lungo tempo trascorso e per il fatto che inizialmente Earl lo rifiuta per aver abbandonato la madre e lui, quanto perché si trova di fronte il prototipo di una gioventù che non riconosce e che avverte lontana anni luce. […]

L’incontro con il suo passato crea ad Howard una serie di cortocircuiti che spesso non riesce a controllare, che lo disorientano e gli fanno crollare le poche certezze che aveva. Anche il personaggio più misterioso, inafferrabile di Non bussare alla mia porta, Sky, interpretata dall’eterea Sarah Polley, che, probabilmente, raffigura lo sguardo interno wendersiano rispetto alla vicenda narrata, sfugge e scivola via come un’anima che solo casualmente si trova in un corpo terreno. Sky è forse uno di quegli angeli che prima volavano sopra il cielo di Berlino osservando le miserie del mondo e poi entrandoci dentro. Sky osserva, chiede ed è anche lei alla ricerca di qualcosa, di qualcosa di indefinito, di pulviscolare come le ceneri che sono racchiuse nell’urna. Quel che è certo è che tutti i personaggi che attraversano questa bizzarra storia di falliti ricongiungimenti famigliari sentono la mancanza di qualcosa. Howard di un passato con cui riconciliarsi per poter continuare, Earl della presa di coscienza di una nuova condizione di vita per poter mettere ordine nella sua già confusa e caotica adolescenza, Doreen di un compagno che renda più lieve la sua cronica solitudine.

Wenders non ha, però, realizzato un film sulla famiglia, sulla sua dissoluzione, sulla sensazione che solo una nuova idea di comunità allargata o di una convivenza basata su sentimenti comuni, idee condivise possa rappresentare la soluzione per la crisi dell’individuo, per la sua ricerca di una dimora dove poter abitare. Anche in questo caso un altro Wenders, quello degli ultimi film, avrebbe presentato questa vicenda paradigmatica come exemplum per arrivare a delle conclusioni, per costruire un’opera a tesi, didascalica e predicatoria. La parte finale, dove confluiscono tutti i nuclei narrativi e le tracce disseminate nel percorso attraversato da Howard portano sì ad un ingorgo che spesso cortocircuita […] ma, probabilmente, si tratta di un effetto voluto dallo stesso cineasta tedesco, proprio per rendere quel senso di instabilità, di realtà sospesa, irrisolta, aperta a qualsiasi soluzione che si delinea fin dall’incipit in cui Howard Spence abbandona improvvisamente il set cinematografico in cui è impegnato. […]