Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani

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Nel giorno in cui la Festa di Roma ha presentato Una questione privata, il nuovo film di Paolo e Vittorio Taviani tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio, questa sera alle 23 Rai Movie programma un'altra celebre trasposizione dei due fratelli registi: Padre padrone, tratto dal romanzo di Gavino Ledda, che nel 1977 vinse la Palma d'oro a Cannes. Abbiamo ripreso alcuni passaggi della lunga recensione che Sandro Zambetti, storico direttore della rivista, scrisse sul n. 172 di Cineforum.


[...] Nel film c'è una Sardegna che non è tutta la Sardegna, ma qualcosa di parziale e, al tempo stesso, di ben più generale: la punta di un iceberg che si estende a tutta la società italiana e, più ancora, all'intero contesto della "civiltà industriale". Ed a manifestarne la presenza è appunto il "silenzio forte" di Baddevrustana, in tutta la contraddittorietà delle sue matrici e delle sue incidenze, del suo inerte mutismo e della sua potenziale musicalità.

Il film è ben lontano dal vagheggiare un mondo agro-pastorale arcadico, intatto, su cui costruire l'impossibile ritorno ad un mitico "stato di natura", aggiornando il vecchio Rousseau con le fumisterie dell'ecologia ideologizzata. l patriarchi sono lì a testimoniare della dimensione totalizzante dell'universo capitalistico, legati anima e corpo alla proprietà, senz'altra prospettiva che quella di aver qualcuno da sfruttare (la moglie e i figli, in mancanza di servi) per illudersi di non essere sfruttati e di fare un lavoro massacrante, sì, ma "indipendente.

…] Paleocapitalismo, certo, ma non per questo rimasuglio irrilevante di un passato ormai definitivamente sepolto, bensì corollario indispensabile, all'assetto neocapitalistico, come estensione del suo marchio di fabbrica alle sacche di sottosviluppo e di arretratezza di cui non può fare a meno. La marginalità, in altre parole, non come scelta, ma come imposizione subìta, tale quindi da non costituire di per sé stessa una condizione alternativa, un'area incontaminata da cui contrapporsi al sistema in termini di autoghettizzazione, ma da risultare anzi come un prodotto del sistema stesso e da portarne impressi i caratteri primordiali, riducendosi a una sorta di lista d'attesa per l'integrazione. Non a caso, il massimo di "promozione sociale" che il vecchio Ledda è in grado di ipotizzare per i suoi figli è quello della carriera militare, cioè del passaggio da emarginati a custodi di un ordine emarginante.

Tutto questo, però, non esclude che la marginalità sia altra rispetto al sistema e abbia anche una sua dinamica opposta a quella dell'integrazione, dando luogo ad un rapporto estremamente complesso fra le due aree. È tale complessità, appunto, che emerge dall'orchestrazione dei suoni e dei silenzi, che si intrecciano fra loro e con le immagini, come abbiamo via via rilevato.

A Beddevrustana, nell'emarginazione più completa, Gavino si fa una sua cultura, di cui il padre gli è maestro, proprio perché padrone. E la cultura degli sfruttati, che non dispongono d'altro che delle loro braccia e dei loro sensi, fatta di fatica, di sofferenza, di confronto quotidiano con le avversità dell'ambiente, Gavino impara quella che banalmente potrebbe essere chiamata l'arte di arrangiarsi, ma che è molto di più: esperienza diretta delle difficoltà che la natura oppone agli uomini e pratica concreta dei modi di superarle, acquisizione di una padronanza di sé che viene dalla conoscenza dei propri limiti e delle proprie possibilità nei riguardi di tali ostacoli, capacità di concentrazio.ne da un lato e di acutizzazione dei propri sensi dall'altro.

[…] In Gavino c'è il bisogno di esprimersi, la potenzialità creativa, la tensione alla comunicazione: quello di cui è privo è un linguaggio attraverso cui dar forma a questi contenuti della propria personalità. La musica, per intenderei, l'ha dentro di sé, ma non sa neanche che cosa possa esse re, finché non scopre la fisarmonica.

Siamo, a ben guardare, alle conseguenze ultime della divisione del lavoro, che è anche, essenzialmente, divisione dell'uomo, mutilazione (e violenza, dunque) di una parte fondamentale delle sue facoltà, anche se finisce per ciò stesso – ecco una delle contraddizioni di fondo in cui si dibatte il sistema – con l'acuirne altre. In questo senso, è evidente che il discorso del film diventa un discorso di classe, sulla cultura delle classi subalterne: sulla superiorità scientifica di questa cultura, ma anche sul soffocamento di cui è fatta oggetto con l'emarginazione che la classe dominante attua anche appropriandosi dei linguaggi, in quanto mezzi attraverso i quali una cultura può diffondersi e diventare egemone.

Mirando alla conquista della parola, perciò, Gavino fa proprio – inconsapevolmente all'inizio, ma poi sempre più lucidamente – un obiettivo essenziale della lotta di classe, qual è quello di impadronirsi dei mezzi indispensabili per diffondere e rendere egemone la cultura del popolo. Egemonia che può e deve realizzarsi, fra l'altro, anche mettendo a frutto il patrimonio di creatività e di conoscenza (la musica di Mozart, ad esempio, e la moderna elettronica) che l'umanità nel suo insieme è venuta costruendosi lungo il corso dei secoli, ogni volta che si è mossa nel senso della storia, attraversando in avanti (e quindi contro) i vari sistemi di potere.

Affrontare questa lotta, tuttavia, significa anche correre il rischio di restare prigionieri dei mezzi di cui ci si vuoi impadronire (dei messaggi, dunque, che i mezzi finiscono per essere), cioè di restare condizionati dalla cultura dominante. È il rischio dell'integrazione, tanto più incombente su Gavino, in quanto la sua è una battaglia isolata, individuale.