The Fighter di David O. Russell

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Questa sera su Iris, alle 21, andrà in onda The Fighter. Film del 2010 diretto da David O. Russell, tratto dalla storia del pugile americano: Micky Ward. Roberto Manassero scrisse una recensione che pubblicammo su Cineforum 502 (acquistabile qui), ne riportiamo alcuni estratti.


[…]The Fighter porta alla luce in modo critico, non riconciliato o risolto, alcuni nodi cruciali dell’attuale cinema hollywoodiano. In quanto film maledetto […] è di per sé un’opera residuale, venuta alla luce come un esperimento tentato più volte, precipitato di anni di lavoro e attese, differenti riscritture e cambi di attori, pettegolezzi e abbandoni sul set. The Fighter, come i suoi protagonisti, porta su di sé i segni del proprio travaglio: è il film incasinato di una vita incasinata. Ma pure il film incasinato e vincente di una vita incasinata e vincente, ammesso che si possa vincere veramente quando si parte da un mondo di perdenti, da una famiglia che più che accogliere soffoca e da pugni che più che liberare gonfiano il volto. 

Tratto da una vicenda vera, intralciato dall’esistenza di un documentario della Hbo, High on Crack Street: Lost Lives in Lowell, andato in onda nel 1995 per la serie “American Undercover”, e da un repertorio di immagini televisive che offrono un immediato confronto tra realtà e trasfigurazione, il film di Russell è condannato dalla sua stessa origine a una prigione espressiva. Nasce necessariamente da un altro film (la prima sequenza mostra i due protagonisti, Micky Ward e il fratellastro Dicky Eklund, camminare inseguiti da una telecamera di cui si assume il punto di vista) e si costruisce come una copia avvinghiata al proprio modello, tentando di instaurare una distanza temporale remota, laddove invece solo quindici anni separano il racconto dalla sua fonte storica. 

[…] Alla maniera del Fincher di Zodiac, Russell piega il digitale al mood estetico del repertorio, lo usa per realizzare il sogno impossibile dell’archeologia visiva, del passato raccontato non con l’estetica del presente, ma con l’inconsapevole pesantezza del qui e ora. Il sentimento del tempo, che Fincher trovava soprattutto in Il curioso caso di Benjamin Button con sequenze che non erano citazioni ma travestimenti, meglio ancora elaborati della memoria cinematografica, anche in questo caso nasce dal tentativo di sovrapporsi al passato, più che di ricostruirlo. La metà degli anni Novanta, periodo in cui inizia la carriera di Ward, il vero protagonista del film, è già storia per The Fighter, segna il momento in cui comincia il racconto e soprattutto la rinascita dell’eroe, la messa a nudo del trauma affettivo che lo lega al fratellastro e dei fallimenti verso cui la sua famiglia va incontro. 

[…]The Fighter è una storia di liberazione, la distruzione di un mondo operata da un alieno che con la sua presenza, la sua testardaggine e il suo ideale di libertà individuale (siamo pur sempre dalle parti del sogno americano), disinnesca la trappola in cui è incagliato. Come da sempre succede a Hollywood, e in particolar modo in Scorsese, per Ward il ring diventa una lavatrice della coscienza, una tappa obbligata per morire e rinascere in scena, per spurgare i resti incancreniti di una storia familiare e ripartire. Ecco perché cerca ostinatamente di seguire le orme del fratellastro; ecco perché, soprattutto, Russel gira l’ennesimo film sulla boxe e lo costruisce come l’ennesimo melodramma famigliare: perché per l’etica calvinista del pensiero americano solo passando per un cammino tortuoso e costretto si può rimodellare se stessi. 

[…] La storia di Micky Ward diventa, allora, una palingenesi individuale ancora più sofferta perché esclusa dalla storia ufficiale, un miracolo sportivo che non otterrà i riflettori delle star del football, del baseball o del basket, ma al massimo produrrà un documentario che da celebrativo diventerà devastante o una mitologia dell’uomo della strada che, nonostante l’attuale celebrazione della resilienza come reazione alla crisi economica, neanche oggi appartiene alla vera anima del Paese.[…]

Russell […] così come Aronofsky, inizialmente previsto come regista del film, sono figli prodighi rinsaviti, artisti bruciati dai loro fallimenti (Le strane coincidenze della vita per il primo, L’albero della vita per il secondo), costretti per rinascere a passare attraverso le parziali forzature del film su commissione. Parziali perché sia The Fighter sia Il cigno nero mantengono nello stile la frenesia e l’improvvisazione da set del cinema indie, ma barattano la loro esistenza con una struttura narrativa innestata a forza, sopportata con difficoltà da un tessuto di immagini fragili e instabili. Il risultato, come per la parabola esistenziale, più che sportiva, di Micky Ward, è duplice: una rinascita che passa attraverso forme risapute, una liberazione paradossale che si alimenta e che vive della propria costrizione.