Torneranno i prati di Ermanno Olmi

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Ricordando Ermanno Olmi, il grande regista bergamasco scomparso oggi, Rai Movie alle ore 15:00 trasmetterà Torneranno i prati. Ultimo suo film ambientato nelle trincee durante la prima guerra mondiale, datato 2014 (centenario della Grande Guerra). Qui sotto la recensione, a firma di Gloria Zerbinati, che pubblicammo sul nostro sito in occasione dell'uscita del film. Inoltre su Cineforum 540 (acquistabile qui)  è possibile trovare due articoli a riguardo, scritti da Paolo Vecchi e Gianluigi Bozza.


Camminò per un paio d’ore e tutto era come allora / perché i ricordi gli venivano vividi: / un sasso, un albero antico, la linea di un monte, / una radura, il frullo di un volo, un sentiero, / uno stabbio, un cespuglio: ogni cosa, insomma, / aveva per lui una storia e una vita. / In uno slargo di bosco si sedette sotto un grosso abete bianco, / riaccese la sua pipa e serenamente aspettò / che ritornassero giù i cacciatori dalla montagna perché gli raccontassero. / Nel frattempo ascoltava il bosco. (Mario Rigoni Stern, Nell’attesa, ascoltando il bosco)

È sempre sorprendente come Ermanno Olmi riesca a dire tutto in poche immagini, pulite, semplicitorneranno i prati è un film essenziale, che rispetta le unità aristoteliche di spazio, tempo, azione, allargando la tragica vicenda di uomini senza nome all’intera umanità, dilatando e contraendo il tempo, muovendosi in uno spazio ristretto come in un labirinto privo di contorni ben definiti, protraendo lo sviluppo di un’azione che sembra non concretizzarsi mai. Il cinema di Olmi è talmente radicale e netto da non permettersi alcun vezzo estetico che tracimi da un assetto etico altrettanto radicale, preservando una coerenza poetica inattaccabile.

torneranno i prati avrebbe potuto essere un film muto, tale è la potenza delle immagini che si contrappongono, lontane da retorica e fanfare, disarmanti nella loro bellezza: il creato e la trincea, l’immensità dell’Altipiano coperto dalla neve, del cielo freddo rischiarato dalla luna e una fossa, angusta, dove gli uomini aspettano di morire. Di fronte allo splendore della natura, quasi barbarica, imponente, i soldati sono costretti a vedere solo una piccola porzione di tanta meraviglia, sbirciando dai fori in cui vanno inserite le canne dei fucili, scrutando un nemico invisibile, stremato come loro, da cui arrivano spari e esplosioni, ma che condivide con gli avversari il conforto di una voce mentre intona una canzone d’amore.

Nei film di Olmi gli uomini sono umani demiurghi, che col loro sapere, la loro concretezza, si ingegnano e si mettono al lavoro per il bene della collettività. In questo caso, però, gli strumenti che hanno tra le mani sono strumenti di morte, il cunicolo in cui ripararsi è anche la loro gabbia, la sapienza ottenuta dal “fare”, nel mezzo della guerra, perde valore, non serve più. Lo spaesamento nel quale sono sprofondati è simile a quello di chi, come in un sogno, ritrova elementi familiari in un contesto stravolto.

Lo spostamento di senso causato dal conflitto trasforma le loro abilità di artigiani, la solidarietà alla quale sono abituati, in “potenzialità contraddittorie”: quasi incapaci di proferir parola, con lo sguardo svuotato, ripetono gesti, sobbalzano al minimo rumore, consapevoli che la trincea, costruita con cura, li riparerà dai colpi e dal freddo, ma probabilmente li inghiottirà in un sonno eterno. Obbligati a una condizione di tale incongruenza, gli uomini, benché immersi in un paesaggio che conoscono e ri-conoscono come ospitale, avvertono la completa estraneità della circostanza, e il rifugio, così come la loro stessa esistenza, si trasforma in un luogo innaturale e alienante.

L’essere umano è a suo agio con l’erba e le bestie, con gli alberi e la neve, non con le armi e la violenza: deve cambiare postura, modificare l’atteggiamento, poiché deve “atteggiarsi” e recitare una parte per dare ordini, prendere il comando. I volti dei soldati, scavati dalla fame e dallo sgomento, riempiono lo schermo e sono illuminati da una luce grigia, il colore sembra scomparso, e con questo la profondità - le immagini sono volutamente appiattite e bidimensionali: sono visi di fantasmi, di condannati che hanno abbandonato la vita entrando in quella trincea.

Olmi li guarda con enorme pietas, la stessa con cui si osserva un animale preso in una trappola, che è spaventato, cerca di divincolarsi, non capisce cosa gli stia capitando, né perché debba subire una tale ferocia. Nel mondo animale esiste da sempre la violenza, per istinto di sopravvivenza e di conservazione. L’uomo, invece, dovrebbe aver imparato a disinnescare – con cultura e educazione, grazie alla propria umanità – la brutalità. Ma quando si manifesta, spietata e ottusa, non è solo l’armonia della comunità a essere compromessa, ma quella dell’intero cosmo. Per tornare all’esempio dell’animale in trappola, il sopruso perpetrato dall’uomo è vuoto di senso e significato: incomprensibile per l’animale che lo subisce poiché esula dalle sue leggi.

Non diverso il vuoto di senso rappresentato dalla Grande Guerra per chi veniva mandato a morire: la maggior parte dei soldati non sapeva perché stava combattendo e contro chi, non c’era nemmeno una motivazione ideologica. La trincea che fende il terreno, quasi fosse uno sfregio alla grazia stessa del creato, rivela dunque l’evidenza di una ferita e di un’offesa fatta a una generazione stroncata nel pieno della giovinezza.

Poi, un giorno, l’erba ricomincerà a crescere anche sulle sponde di quel fossato, torneranno i prati e con loro la primavera. E l’erba coprirà i cadaveri di quei ragazzi e quei luoghi sembreranno di nuovo innocenti, come se nulla fosse accaduto. Non è il creato, però, a dover custodire memoria di quel che è stato: all’uomo viene chiesto di ricordare, alla natura di portare, di nuovo, sollievo.