Wolf - La belva è fuori di Mike Nichols

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Per la serata di Halloween, su Cine Sony (canale 55) alle 21, Wolf - La belva è fuori di Mike Nichols, «un piacevole spettacolo che introduce qualche semplice ed efficace variante alla serie della licantropia in immagini», come scriveva Ermanno Comuzio su Cineforum 337.


«l realizzatori del film vi saranno grati se vorrete astenervi dal rivelare agli spettatori ciò che accade nella terza parte del film. Grazie per la comprensione e la collaborazione». È la raccomandazione che campeggia in neretto nel press-book di Wolf. Accidenti accidenti ai press-book. Dovrebbero eliminarli, così come le dichiarazioni degli autori, sostitutive di un sano riassunto della trama, che infestano i cataloghi delle manifestazioni. I cenni bio-filmografici sui realizzatori fanno comodo, certo, e basta là. Invece ci rovinano tutto, così come son fatti.

Per cosa amiamo il cinema americano "classico" e quello che ad esso si richiama? Perché è capace di proporci dei veri e propri contes philosophiques senza mai dichiararcelo, senza sottolineare significati e propositi, anzi facendo finta di parlar d'altro, di badare al sodo, allo spettacolo e al trattenimento. Niente Cultura, siamo americani. Poi arrivano i portaborse dei produttori e dei distributori e allora si aprono le cateratte della imbecillità, soprattutto nell'attribuire ai realizzatori le più folli intenzioni.

Accade così di scoprire, se si bada al prezioso supporto letterario di Wolf, che Mike Nichols ha voluto fare un film sulla sessualità maschile («bestia di notte, gentleman di giorno»), che ha voluto manifestare «quanto sia fragile la facciata della nostra civiltà, di quante bassezze sia capace l'animo umano, come sia difficile redimersi»; e poi è rimasto colpito dall'atmosfera kafkiana della storia («Come ne La Metamorfosi si tratta dell'espressione poetica di uno stato interiore, di una metafora dell'esperienza di divenire diversi, lasciandosi alle spalle l'umanità, una sorta di incubo che può accadere alle persone arrivate a metà della loro vita»). E poi c'è la tremenda domanda, cui segue la Risposta (suppongo che in inglese quel "tu" cui si rivolge sia reso con un biblico "Thou", più che col quotidiano "You"): «Chi è in gabbia e chi è libero? Se non sei in contatto con l'animale che è dentro di te, in realtà sei una bestia in gabbia». Ho capito, ma facciamo la recensione al film o al press-book?

La premessa ci serve per lasciare da parte ogni tentazione di leggere Wolf come un'opera di Cultura, bisognosa di essere decrittata. Siamo di fronte, in realtà, a un piacevole spettacolo che introduce qualche semplice ed efficace variante alla serie della licantropia in immagini. Protagonista è Jack Nicholson, redattore capo di una potente casa editrice di Manhattan, in attesa di perdere probabilmente il posto che ha. Guidando la vettura in una strada isolata, nottetempo, investe qualcosa. Scende, va a vedere, si tratta di un lupo, ferito. La bestia gli si rivolta contro, lo azzanna e sparisce nella notte. Da quel momento l'esistenza del Nostro cambia. Dapprincipio si tratta di una trasformazione sottile: i suoi sensi si fanno più acuti e la sua percezione di ciò che lo circonda diviene più penetrante. Poi la verità viene a galla: il lupo ferito gli ha trasmesso la sua sostanza ferina, nelle notti di plenilunio al pubblicitario tanto sottomesso e tanto vittimizzato dal cattivo imprenditore Christopher Plummer, ma tanto combattivo dopo la faccenda della benedetta morsicatura, crescono peli e zanne. La presenza femminile è assicurata da Michelle Pfeiffer, figlia ribelle del "boss", tanto ricca ma tanto infelice perché non trova mai niente che l'appaghi e passa da un'esperienza all'altra, contenta di dispiacere al genitore. Fatale che si avvicini al "diverso", ribelle come non mai rispetto ai comportamenti umani, troppo umani. Bene, la vicenda è all'insegna del divertimento e dell'ironia. Poiché diventa immagini, atmosfera, scena, luce, insomma cinema.

Mike Nichols non è un "autore", è un regista, passa da Virginia Woolf (quasi come Wolf) ai laureati, dai comma soldateschi alle conoscenze carnali, dagli affari di inquinamento delle fabbriche agli affari di cuore, dalle donne in carriera agli Henry, a proposito, che diventano umani solo se qualcuno gli spara una pallottola in testa. «Datemi una storia e io la faccio diventare un film», potrebbe essere il suo motto. E ci riesce sempre o quasi. Gli sceneggiatori (Jim Harrison, scrittore e saggista: giura che lui stesso ha sofferto di «un lieve attacco di licantropia »; e Wesley St1ick, quello di Analisi finale, di Verdetto finale e di Cape Fear-) hanno arzigogolato una storia di lupi in giacca e cravatta che si distruggono a vicenda per fare carriera, per conservarsi il posto o per migliorarlo. Virandola verso una dimensione di horror gotico.

Poi arriva Nichols - anzi arrivano Nichols & Nicholson, nel quarto capitolo di una bella collaborazione, e ci mettono una perfidia che dà un senso preciso a tutta la storia, quello per cui sono più belve quelle che tradiscono amicizie, principi, doveri e compagnia bella per arrampicarsi in cima, che quelle che vagano ululando per i boschi. Strano che sul press-book non abbiano usato un facile latinorum: «homo homini lupus». Ma quel che importa è il tono del racconto, che non sta in quella che potrebbe sembrare una storia di ordinaria licantropia con sviluppi grossolani (troppo trucco, troppi denti, troppo sangue, troppi peli: ma Jack Nicholson è addirittura contenuto, data l'occasione che gli viene offerta su un piatto d'argento) bensì in una commedia sulfurea sulla giungla quotidiana. Ma allora ha ragione il press-book?