Jirí Menzel, il finto timido del cinema ceco

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Il 5 settembre 2020 è morto a Praga il regista ceco Jirí Menzel, premio Oscar per il miglior film straniero nel 1966 con Treni strettamente sorvegliati e tra gli autori più noti, ma anche appartati, della nová vlna ceca. Lo ricordiamo con un passaggio di un saggio che Massimo Tria ha dedicato al cinema di Menzel, pubblicato sul numero 455 di Cineforum, giugno 2006.


Se si chiede allo spettatore ceco medio di associare un nome a quello del regista Jirí Menzel, probabilmente questi risponderà citando lo scrittore Bohumil Hrabal. Un ipotetico pur attento osservatore culturale delle nostre latitudini riuscirà forse, invece, a ricordare il nome del premio Oscar per Treni strettamente sorvegliati e forse conoscerà lo stesso Hrabal, ormai ampiamente tradotto. Pretenderemmo però troppo se chiedessimo di accostare i due nomi, per riformare quella che è stata per diverse decadi una delle coppie fondamentali del cinema ceco, fornendo quel filo rosso che unisce il manifesto a dieci mani della nová vlna ceca (quelle Perline sul fondo del 1965 con cui Menzel esordì) ai successivi adattamenti cinematografici di opere del grande autore di Brno […].

Mettiamo in chiaro alcuni presupposti-base, per quanto paradossali possano essere: Bohumil Hrabal non è propriamente il più filmabile degli scrittori. Non per mancanza di appigli drammaturgici, ma in quanto egli basa gran parte della sua potenza semantica sul registro del parlato colloquiale e sulla forza dirompente della esagerazione verbale; Menzel non è stato l’unico che si sia, a suo rischio e pericolo, cimentato con tale opera di trasposizione, né egli è campato di solo Hrabal. Certo, questo sodalizio da un lato gli ha permesso di attingere a testi artisticamente esplosivi per ricchezza umana, e a una fluviale genialità lessicale; dall’altro ha invero dato vita a una inevitabile “volgarizzazione” di quelle complesse opere letterarie che lascia a volte a desiderare chi ne ammiri la multidimensionalità originaria.

Come se Menzel al fine di divulgare per un pubblico più pigro e disattento come quello cinematografico avesse (intenzionalmente, dichiarata- mente) spianato e limato le asperità di una struttura estetica sfaccettata come quella dell’autore moravo. È questa una per- dita secca che il “non-autore” Menzel ha messo in conto fin dall’inizio, un approccio genericamente poetizzante che lo ha poi accompagnato con qualche eccezione lungo tutta la sua carriera, anche quando a fornirgli il testo di partenza (si è sempre dichiarato semplice esecutore) era un altro autore letterario o qualche sceneggiatore di fiducia.

La sua poetica anti-autoriale egli la ha ripetutamente dichiarata fin dagli anni Sessanta: «Quando col cameraman Jaromír Sofr facevo il mio primo film ci dicemmo che avremmo fatto un “piccolo film ceco”, così che poi ce ne lasciassero fare degli altri. A noi interessava più che altro che la gente quel film andasse poi a vederlo e che non ci si dovesse vergognare di fronte a Hrabal...». Se non fosse ancora chiaro con chi abbiamo a che fare si ricordi allora quest’ulteriore dichiarazione di principi: «Il film d’autore? A mio modo di vedere è quando una persona si inventa un film, se lo scrive da solo, da solo se lo gira e poi pure da solo se lo guarda...». […]

Va anche osservato che i testi che egli ha scelto di portare sullo schermo sono fra i più tradizionali dell’opera hrabaliana: Treni strettamente sorvegliati è una novella che pur facendo tesoro di flashback e invenzioni verbali (i “nomi parlanti”, l’uso funzionale del tedesco degli occupanti, la narrazione in prima persona di un morituro) è tutto sommato una delle più rappresentabili. Bastò al regista linearizzare l’intreccio in fabula, addolcire il finale e certi dettagli quasi horror del testo di partenza e, per così dire, il successo di pubblico era bell’e pronto. Nel film si verifica una convergenza di sesso e morte, che si rincorrono in modo capriccioso e si ritrovano per pura casualità solo alla fine: avendo perso finalmente la verginità, l’allievo ferroviere Hrma è trasformato, quasi trasfigurato (si veda l’inquadratura da dietro in cui per un attimo lo si scambia con l’esperto Don Giovanni della stazione), e si fa improvvisato medium di congiunzione fra l’aspirazione alla pienezza sessuale e l’aspirazione alla libertà nazionale.

Il sabotaggio al treno nazista è una amara vendetta della morte, che segue alla sua “vendetta” personale contro l’eiaculatio praecox (l’incontro amoroso con la bella staffetta della Resistenza). Qui Menzel, pur proponendo le abituali sviolinate e la musica idilliaca, riesce a conferire un certo tono di tragicità anche con il sonoro: il silenzio drammatico che precede lo scoppio della bomba, il tono ferale del collaboratore filo-nazi- sta (un magistrale Vlastimil Brodski) che si oppone alle intonazioni variamente lascive degli altri personaggi.

Treni strettamente sorvegliati è uno dei pochi film menzeliani in cui si possa parlare espressamente di una progressione psicologica e narrativa, di una matura- zione e di un climax (termini quanto mai appropriati in questa novella sull’impotenza maschile) che non calano sul pubblico senza una ragione, ma conducono a giusto compimento la rincorsa reciproca e bizzarra di eros e sacrificio di sé, di piacere e distruzione.