Tobe Hooper: il fascino abietto di un bastardo

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Non voglio piangere Tobe Hooper. Non lo piango perché ho già passato trent’anni della mia vita a rimpiangerlo. Maledetto Hooper, quanto mi hai fatto incazzare. Quanto mi hai deluso. E adesso già mi manchi, maledetto due volte. Eppure non voglio piangerti, perché sarebbe troppo facile. E poi sarebbero lacrime da prefica, quindi preferisco evitare.

Ma c’è una cosa che voglio dirti. Una cosa molto privata. Benché non ti abbia mai amato, almeno non in modo costante, ho provato per te numerosi innamoramenti. Colpi di fulmine. Che tu, davvero maledetto, hai ogni volta crudelmente disatteso. Tuttavia, e mio malgrado, mi rinnamoravo sempre. Cocciuto e folle. Però ti chiedo: non sono queste le passioni migliori? Quelle che giungono inaspettate e poi finiscono e poi ritornano ancora? Le passioni adolescenziali. Così forti. Così assolute. Troppo piene, troppo esclusive, a tal punto da confondere la ragione. Va’ a capirle.

Tu che nel 1974 hai girato uno dei capolavori totali del cinema horror di tutti i tempi, un film che soltanto di recente ho scoperto essere prima di ogni altra cosa un film “uditivo” (e che idea geniale avesti: fare un’opera di suoni assordanti, flash fotografici motoseghe urla martelli furgoni, in un periodo dove il “visivo” la faceva da padrone, quando il popolo americano si vedeva morire in Vietnam alla tv, in attesa del giro di boa del blockbuster); tu che dagli anni Ottanta in poi non ne hai più veramente azzeccata una, e ti sei barcamenato come potevi in un mercato che – era evidente – disprezzavi; tu, maledetto, che non mi hai mai permesso di capire quale fosse davvero il tuo “pensiero”, il tuo immaginario, qualcuno direbbe la tua poetica; tu che non ce l’hai mai fatta a rendere Robert Englund un bravo attore, perché non eri un regista d’attori (tanto che l’unica volta in cui avresti potuto usarli per bene, in Poltergeist - Demoniache presenze, si capiva che a dirigerli era il “vero” regista del film, quello che nel frattempo fece di Harrison Ford un’icona), tu in verità cercavi l’immagine e il rumore, e li mischiavi assieme con libertà demenziale ma irresistibile, e in un’occasione sei stato al riguardo formidabile, laggiù in Louisiana, nel 1977, dove c’era un grosso coccodrillo; tu che mi hai divertito quando hai mostrato Louise Fletcher ingoiare un’intera rana viva più di quando decidesti, birichino, di esibire le pur sublimi tette di Mathilda May per due ore interminabili: maledetto Hooper, ecco, mi hai fregato ancora.

In tutto ciò, e mentre scrivo queste righe convinto di non doverti piangere, capisco che la tua presenza nell’horror è stata per me una specie di sensibile anti-apostasia. Sarebbe dovuto essere il contrario: con le tue cianfrusaglie raffazzonate, il tuo mercatino dell’usato di seconda mano, avresti dovuto esasperarmi ed allontanarmi. E invece mi ritrovo con una fede irrobustita e consolidata, perché per un Night Terrors qualunque mi rendo conto, adesso con lucidità travolgente e non più adolescenziale, che a consolarmi c’è sempre ad esempio il faccione freak del ragazzone deforme di Il tunnel dell’orrore. E c’è, fissato nei miei ricordi come si fissano gli eventi che ti cambiano la vita, quel massacro texano dietro una porta che non avrebbe dovuto essere aperta.

Perciò non rinnego niente, neppure la mia simpatia per un tuo film abbastanza indifendibile, I figli del fuoco; neppure quando pensai che eri meglio di Wes Craven (no, non lo sei mai stato). Anzi, sono convinto oggi più che mai che la tua dipartita, maledetto Tobe Hooper, non faccia che confermare che eri un bastardo, una di quelle persone che usano il loro carisma per tenderti una trappola e farti cadere ai loro piedi: il tuo, di carisma, era sporco e turpe, sgraziato e maleodorante, funesto e fetente come il fascino della stiratrice di The Mangler - La macchina infernale. Io mi sono lasciato trascinare a te anche se non lo meritavi. Se non è amore questo.