Intervista all'urbanista-paesaggista Nicolò Bassetti

300 km in 20 giorni sul GRA

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A margine dell’intervista a Gianfranco Rosi realizzata a Venezia, abbiamo incontrato Nicolò Bassetti, urbanista, paesaggista e ideatore del progetto da cui è nato il film. Come ci ha detto Rosi: “Il progetto Sacro GRA mi è stato letteralmente consegnato dalle mani di Bassetti”. Ha condotto un’approfondita ricerca etnografica sul Grande Raccordo Anulare che ha avuto e continua ad avere una vita legata e tuttavia indipendente dal film. I suoi spunti di riflessione sulla lavorazione del film offrono delle chiavi di lettura assai utili per capire la complessità che sta dietro ad un progetto come questo.

Parlaci un po’ del tuo coinvolgimento e del ruolo di Renato Nicolini nel progetto di Sacro GRA. È vero che tu, prima ancora che partisse la pre-produzione del film, hai percorso a piedi l’intero Raccordo anulare?

Sì, l'ho percorso a piedi perché arrivando da Milano a Roma nel 2001 per me lo spaesamento è stato forte. Mi perdevo spesso, molto spesso. E questo perdermi a un certo punto ha cominciato a piacermi. Ho deciso di lasciarmi sedurre dalla città. La cosa che però notavo è che sul Raccordo questa passione per lo spaesamento era inevitabile perché non sapevo mai dov’ero. Questo mi ha incuriosito. Io mi occupo di luoghi che hanno perso la loro identità – questo è il mio lavoro – e allora ho deciso di fare una ricerca, un po’ d’istinto, sul GRA. Dopo un po’ mi è capitato di trovare un saggio – molto bello, piccolo, breve, ma una vera perla di quel genio assoluto che ha amato Roma oltre se stesso che è Renato Nicolini – che si chiama Una macchina celibe e che dice che il Raccordo è stato costruito per organizzare, ma che non è riuscito a organizzare un bel niente ed è solo una forma di censura delle contraddizioni della città. Questa cosa è stata come mettermi una miccia: “Ecco!” mi sono detto. Sai quando non capisci qualche cosa e poi trovi uno che riesce a dirtela così chiaramente? “Ecco, era quello!” Allora mi sono messo uno zaino in spalla e sono partito e ho fatto a piedi trecento chilometri in venti giorni.

Anche perché normalmente il Grande Raccordo Anulare è un luogo di transito per le auto. Difficilmente lo si vede dal punto di vista di chi ci cammina.

È un luogo dove sostanzialmente il tempo ha sostituito lo spazio. Lo spazio non c’è più. Ci sono dei luoghi che stanno perdendo la loro identità e sono in attesa di tanti futuri possibili, come dice Nicolini nel libro, però non lo trovano o lo trovano in modo soltanto provvisorio. Quindi hai la sensazione di essere sempre provvisorio e di essere sempre in transito. Una città è tale quando dona ai cittadini dei luoghi, dove si può stare, si può vivere. Una città è fatta di pause dove uno si può fermare a contemplare la piazza della chiesa, una certa prospettiva, un parco dove ci sono altre persone da incontrare. Nel Raccordo anulare questa cosa non c’è, o meglio, non è riconoscibile.

Non appare nel visibile.

Esatto, non è visibile, perché ti continui a incartare: non sai dove sei, non sai dove sono i riferimenti. Allora il GRA è come un vulcano attivo che continua a produrre secrezioni. Come l’Etna che continua a produrre lava che si accumula una sull’altra, e sono cinquant’anni che questo vulcano continua a buttare secrezioni. E tu le hai sia fuori che dentro: perché c’è una città che continua a svilupparsi fuori dal Raccordo, ma hai anche dei vuoti che implodono dentro al Raccordo. A volte si sentono dire delle scempiaggini, tipo quella di Alemanno, che una volta disse: “I rom fuori dal Raccordo!” A parte l’orrore della cosa in sé, è anche insensata e stupida dal punto di vista geografico. Perché vuol dire che lui non è mai andato fuori dal Raccordo. Se lo facesse scoprirebbe che ci sono dei pezzi di città che sono molto più grandi e densi dei vuoti che stanno dentro al Raccordo.

E poi si rischia di considerare il GRA soltanto come una delimitazione di qualcosa d’altro; non lo si considera come qualcosa in sé.

Lo si vede come fossero mura, ma non si capisce che invece si tratta di mura fallite. Il GRA è stato costruito negli anni Cinquanta, dopo la guerra, nel periodo del boom economico e della motorizzazione di massa. Io quando lo giravo e incontravo moltissime persone con assoluta lentezza, chiedevo sempre: “Ma secondo voi, tra trecento anni che cosa ne sarà del Raccordo?” E devo dire che molti mi rispondevano: “Sarà un’altra rovina di Roma”. Questa cosa è bellissima perché vuol dire che Roma è una città molto aperta, in grado di accettare la sedimentazione delle rovine. E infatti anche le rovine industriali – che sul Raccordo ci sono e vengono da una stagione industriale di Roma che già è durata poco, ma quel poco è finito completamente – danno proprio l’idea dell’archeologia molto più di altre rovine industriali altrove. E allora si dice “il GRA sarà un’altra rovina”, come l’acquedotto romano ci sarà anche il Grande Raccordo Anulare, e ci saranno i giapponesi che andranno a vederlo dicendo “Guarda, quando si andava in macchina!”

Insomma questa esperienza ha generato in me un amore per questi luoghi, che poi sono davvero straordinari perché sono capaci di raccontarti delle quotidianità molto importanti. La nostra difficoltà è stata quella di non essere voyeuristici: perché se cedi al voyeurismo sei finito. Se ci caschi, finisci per guardare solo dal buco della serratura, e nel GRA ci sarebbe tanta gente che è facile guardare dal buco della serratura. Il grande merito di Gianfranco è stato quello di riuscire a chiudere la porta. È una cosa molto bella che lui ha detto in conferenza stampa a Venezia: il problema non è stato aprire la porta su queste vite ma chiuderla a sufficienza per far vedere il meglio, proteggendo i personaggi.

Il problema è che poi c’è bisogno di un elemento di mediazione per far vedere ciò che sta attorno al Raccordo e che non è visibile dal raccordo. Forse il più grande merito di Gianfranco è stato quello di rendere visibile qualcosa che immediatamente non lo era.

Io devo dire che nella mia attività di paesaggista, in questi tre anni, stando insieme a Gianfranco, ho imparato moltissimo. La cosa che ci ha unito è stata la lentezza. Io ho fatto un viaggio lento per conoscere un luogo che invece è una censura fatta di velocità. Lui addirittura si è fermato: non è nemmeno andato lento, si è proprio fermato [ride]. Io lo chiamavo il cuculo, perché faceva come i cuculi che si mettono nel nido degli altri uccelli: lui, ad esempio, a Scandelluzza, nel castello del Principe, ci è andato ed è rimasto tre mesi. Io quando ci sono passato sono rimasto giusto qualche giorno. 

In effetti ci ha colpito la lunghezza di questo progetto.

Il vero investimento è stato nel tempo. Essendo un film a basso budget, l’unico modo per superare il gap è stato dedicargli tantissimo tempo. La cosa interessante è che però ora proseguiremo e pubblicheremo anche un libro che è in uscita a fine ottobre per Quodlibet. L'ho scritto io insieme allo scrittore Sapo Matteucci (anche lui è stato sul Raccordo) e costituisce una sorta di controcampo del film. Il film è una narrazione in cui non si sa mai dove si è: abbiamo tolto tutto quello che è riconoscibile. C’erano delle riprese del Corviale bellissime che non abbiamo usato con grande sofferenza, perché il Corviale è un po’ il Colosseo del GRA. È un landmark: cioè lo conoscono tutti, ci hanno scritto centinaia di libri etc. Nel film invece ci sono solo luoghi non riconoscibili. A parte all’inizio dove si vede Borgata Fidene e magari uno che è di Roma sa dove è, per il resto abbiamo ricercato costantemente lo spaesamento. Come dice Fellini, il GRA è un “anello di Saturno”: devi volare alzato da terra. Invece il libro è uno spaesamento ma geografico: si sa sempre dove ci si trova - lo diciamo - ma abbiamo provato ad adottare lo sguardo del flâneur. Abbiamo ritrovato nel libro tutto quel gusto e quella fascinazione che sta nell’atto di perdersi. 

(foto Matteo Ninni)