10 film per le feste (e sulle feste) – Parte 1

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Una lista per chi è stanco dei soliti film natalizi offerti dalle piattaforme (a parte, naturalmente, quello della foto in testa, immancabile come e più del panettone) e ha voglia di titoli non così scontati. Ecco i primi dieci: 


L'appartamento, Billy Wilder, 1960

Vigilia di Natale al bancone di un bar. Due sguardi catatonici segnati dall’alcol riflettono vacuamente sul valore della festa. Senza guardarsi, ognuno perso nella sua delusione. «In una sera così fa quasi paura tornare in un appartamento vuoto», dice una lei, incontrata a quello stesso bancone. «Ho detto che non ho famiglia, non che ho un appartamento vuoto», risponde lui, Jack Lemmon, ancora più amaro. Il suo appartamento, infatti, è occupato ma non da lui, per un’estromissione che lui stesso ha incoraggiato con lo scopo di arruffianarsi le simpatie dei capi e sperare di far carriera. Eppure questa volta è un’occupazione che sa di beffa. Dentro, infatti, c’è il suo principale, Fred MacMurray, con l’amante. Solo che l’amante, Shirley MacLaine, è la lift girl della compagnia di assicurazioni in cui lavora e di cui è innamorato. Una ragazza dell’ascensore che comincia a patire i saliscendi emotivi cui la obbliga il suo amante, che la liquida velocemente prima di cena per tornare dalla sua famiglia, sporgendole cento dollari in regalo che somigliano tanto alla tariffa di una prestazione. In lacrime, la ragazza ammette che «quando si è innamorati di un uomo sposato non bisogna mettersi il rimmel», e poco dopo, rimasta sola, tenta ciò che solo i personaggi di Capra avevano osato tentare nella stessa notte: suicidarsi. Ma l’amarezza è un elastico che in Wilder si tende sempre fino a un istante prima della rottura: un attimo dopo, in quello stesso appartamento in cui nessuno è davvero al suo posto, torna l’impiegato compiacente. S’incontrano due frustrazioni e si gettano le basi per saldare due solitudini. È Natale, è la nascita di un amore. Anche se l’alberello che campeggia in un angolo di quello stesso appartamento mette un’inspiegabile tristezza.
Giampiero Frasca


Bianco Natale, Michael Curtiz, 1954

Ci sono film che guardi come fossero la recita natalizia di tuo figlio, con quell'attitudine compassata che si scioglie inevitabilmente in un sorriso affettuoso. Perché, certo, i buoni sentimenti, la trama edificante, il già visto e già sentito, ma quando Bing Crosby, nel prologo bellico da varietà, attacca I'm Dreaming of a White Christmas, ti viene voglia di essere un soldato al fronte che si strugge per la nostalgia di casa, con l'albero, la neve e tutto il resto. La neve, per la verità, qui tarda a venire, e due amici ex soldati (il film è del1954) si uniscono a due sorelle cantanti-ballerine (Rosemary Clooney e Vera Ellen), per aiutare un ex generale diventato albergatore. Serve uno spettacolo natalizio coi fiocchi. Anche se il cinema è al grado zero, il buonumore parte già dalla scritta VistaVision e i titoli col vischio, viene alimentato dalle canzoni a profusione di Irving Berlin e si realizza nello show finale, dove trionfa l'amore e la mdp si muove dal palco alla platea, invitandoci a unirci alla celebrazione dello spirito natalizio. Da guardare accanto a un camino acceso.
Fabrizio Tassi


Ginger e Fred, Federico Fellini, 1985

Come dimostra il visto di censura, Ginger e Fred era già pronto alla fine di ottobre del 1985 e quindi sarebbe potuto uscire per Natale, ma produttore e distributori devono avere pensato che fosse troppo rischioso fare uscire il nuovo Fellini in quel periodo cruciale e lo rimandarono ai primi del 1986. Il film si svolge però durante le feste natalizie: alla stazione Termini campeggia uno squallido Moloch, emblema di trionfante volgarità, di consumismo forsennato, il gigantesco zampone di maiale del cavalier Fulvio Lombardoni che annuncia quanto sarà penoso il viaggio dei due vecchi ex ballerini nelle viscere della balena televisiva che tutto fagocita e immiserisce. Rivisto 35 anni dopo, il film di Fellini appare in una prospettiva ancora più apocalittica rispetto alla satira della fase iniziale del berlusconismo: come una stazione di non ritorno in quel quadro di degradazione dell'Italia che Fellini evocava film dopo film, dove l'abbruttimento del mistero e della sacralità dello spettacolo riflette quello della nostra società e della nostra cultura.
Roberto Chiesi 


Gremlins, Joe Dante, 1984

Da una rete fittissima di citazioni cinematografiche e letterarie prende corpo questo film che affronta di petto il tema del Natale come trionfo dello spettacolo dei consumi e lo rovescia mostrandone le ombre che lo assediano per conquistarlo, saccheggiarlo, ridicolizzarlo. Gli affetti familiari sono una superficie tranquillizzante che solo l'esercizio della violenza può ripristinare, una volta squarciata dall'irruzione dell'imprevedibile. La fiaba come contenitore narrativo mostra le sue potenzialità metalinguistiche più eversive, modulando una vicenda il cui lieto fine risulta a ben vedere apertamente provvisorio. Finito un Natale se ne fa un altro... E il discorsino finale del misterioso mandante è in realtà un po' fuori tema (come può essere il Mogwai, animale fantastico, un «dono della natura»?) rispetto alla reale (inconsapevole?) preveggenza del film: che parla di fatto del disastro sociale e culturale allora appena avviato dal neoliberismo reaganiano e tatcheriano e già fuori controllo.
Adriano Piccardi


Incontriamoci a Saint Louis, Vincente Minnelli, 1944

«Incontriamoci a Saint Louis del 1944 rappresentò una pietra miliare. Prima di tutto la storia non si svolgeva a Broadway, ma era un album di memorie ambientate nel Midwest alla fine del secolo. I protagonisti erano membri della classe media. Non avevano bisogno di essere degli artisti professionisti: ciascuno poteva cantare e danzare se ne aveva voglia! Cantare e danzare divenne naturale come respirare e parlare. Anche le canzoni erano studiate in modo da far procedere o svelare i personaggi. Esprimevano le intermittenze del cuore. A volte erano tinte di ironia agrodolce, quando per esempio la famiglia doveva affrontare un futuro incerto nella grande città. Prevalevano la dolcezza e l'innocenza, ma bastava un'esplosione di pianto e la rabbia di una bambina, perché improvvisamente questo nostalgico pezzo d'epoca si oscurasse». A parlare è Martin Scorsese nel suo Un viaggio nel cinema americano, film fondamentale per capire il cinema di Hollywood e le sue sottili, mascherate inquietudini. Come, ad esempio, la paura della dissoluzione di un mondo (o volendo, la paura per la presenza di un male inestirpabile anche nei quadretti più idilliaci) che emerge dalla scena, analizzata dallo stesso Scorsese, in cui la piccola Tootie, nell'ultimo Natale che passerà a Saint Louis prima di trasferirsi a New York, distrugge la famiglia di pupazzi di neve costruita in giardino. È una metafora spaventosa di ciò che il cinema americano può arrivare a pensare di una famiglia: contro ogni sensazione generata dai toni caramella del film, mette i brividi.
Roberto Manassero


The Junkie Christmas, Nick Donkin, Melodie McDaniel, 1994

Alla base di questo corto in claymation c'è un racconto di William S. Burroughs. Lo scrittore ne aveva registrato una versione vocale poi musicata da Kurt Cobain, uscita col titolo di The "Priest" They Called Him; parte di quella registrazione - senza le chitarre del leader dei Nirvana - è usata come voce narrante. Una storia di Natale insolita, ma bellissima, dove un tossico viene rilasciato dalla polizia il giorno di Natale, fa i salti mortali per rimediare una dose che poi sceglierà di regalare a un ragazzino in preda a  calcoli renali, per placare i suoi dolori lancinanti, e ottenendo così uno «sballo» divino. Lo vidi da ragazzino e ne fui folgorato. Era finito, non so come, in coda alla VHS sulla quale erano registrati Marrakech Express e Turné; oggi lo si trova facilmente su YouTube. Due cose faccio, ogni Natale (perché il Natale è festa, la festa è rito): rivedere The Junkie's Christmas e ascoltare Christmas Card from a Hooker in Minneapolis di Tom Waits. C'è ritualità, e c'è coerenza. Ah, dimenticavo: il corto è prodotto da Francis Ford Coppola. Dettaglio, forse, ma significativo.
Federico Gironi


Trappola di cristallo, John McTiernan, 1988

D’accordo non è esattamente un film di Natale Die Hard. Molti nemmeno se lo ricordano che è ambientato durante le feste e la scelta, per la verità, pare essere quasi del tutto strumentale alla trama. Così da permettere allo sbirro newyorkese John McClane di trovarsi in trasferta a Los Angeles – per passare le vacanze con la moglie Holly che lavora nella sede californiana della multinazionale Nakatomi – e a una banda di terroristi della Ddr di prendere in ostaggio un intero grattacielo del tutto indisturbata. Eppure il fatto che un action come questo abbia un’ambientazione natalizia non può essere un caso. Perché il Natale sul finire degli anni '80, del reaganismo e della Guerra Fredda più che una ricorrenza religiosa è un sistema di valori, un simbolo. Un dispositivo su cui innestare storie, citazioni e contaminazioni e in cui il cinema d’azione può convivere con il western, il poliziesco, il mélo e persino il war movie. McTiernan gioca con le regole del genere e si inventa un eroe mai visto prima, con il corpo “normale” di Bruce Willis (nell’epoca degli StalloneSchwarzenegger e Van Damme) e la parlantina da stand-up comedian. Che anticipa gli anni ’90 e apre al postmoderno. In un tale contesto tutto diventa possibile, persino vedere un terrorista (morto) con il berretto di Babbo Natale e ascoltare le note di Let it Snow mentre scorrono le immagini di una calda alba sopra Los Angeles.
Lorenzo Rossi


S.O.S. Fantasmi, Richard Donner, 1988

Canto di Natale secondo Richard Donner e Bill Murray. Al posto della Londra vittoriana, la New York degli anni 80, dove Ebenezer Scrooge diventa Frank Cross, dirigente di un network televisivo scorbutico, ambizioso, che licenzia gente a Natale, al suo unico fratello regala un asciugamano da bagno, ruba il taxi alle vecchiette e vuole attaccare le corna da renna sulla testa di un topolino con le graffette per il teleplay dickensiano in diretta che sta producendo. E per l'amor di Dio: la vogliamo smettere con questo martellamento? Indimenticabili il tassista alcolista dei Natali passati dalla risata grassa e il sigaro sempre in bocca («Le cascate del Niagara», sghignazza di fronte alle lacrime del Frank bambino), la petulante e manesca fatina dei Natali presenti (che poi è Carol Kane) e il suo tostapane, l'inquietante moloch multischermo dei Natali futuri. E poi ci sono anche Karen Allen («Ti ricordi, Claire?»), la motonave Maccarello, Eliot Loudermilk che anticipa il Giorno d'ordinaria follia di Michael Douglas; ci sono risate sincere e altre a denti stretti, perché S.O.S. Fantasmi, a modo suo, sa essere molto scorretto. E allora basta con questo martellamento: un bacio alla ballerina di fila sotto al vischio e «Put a Little Love in Your Heart». È Natale, con Bill Murray.
Federico Gironi


Sotto zero, James Parrott, 1930

Stan e Oliver cercano di racimolare qualche centesimo suonando per strada (Stan un armonium, Oliver il contrabbasso), sotto la neve, nel cuore dell'inverno. Non un inverno qualsiasi: la didascalia iniziale dichiara che siamo nel lungo inverno del 1929; nient'altro, ma è sufficiente questa contestualizzazione (inusuale) per caricare di un valore specifico ciò che stiamo per vedere. Sotto zero (di James Parrott, direttore della fotografia un giovane George Stevens) ricorreva sempre, durante le feste, nei programmi televisivi di «comiche finali»: ci sta la neve, la melodia paranatalizia... Di comico però c'è ben poco in questa vicenda di reietti esposti all'indifferenza della “gente normale” e gettati in pasto ai lupi, che siano in divisa o no. Ci sono le gag, i consueti camera look, le smorfie che ci attendiamo da Laurel & Hardy, ma la risata si spegne in un finale agghiacciante pur nella sua apparenza clownesca. 
Adriano Piccardi


I tre della croce del sud, John Ford, 1963

Natale nei mari del Sud. Con John Ford, John Wayne e Lee Marvin, amici che si scazzottano di continuo. Film del 1963: l'anno prima Ford aveva girato lo stupendo L'uomo che uccise Liberty Valance, con Wayne e Marvin, uno contro l'altro. Donovan's Reef - titolo originale del film [ndc] - è il locale di Donovan, un saloon con una scassata slot machine. Ford girerà ancora l'addio al western Il grande sentiero e l'ultimo Missione in Manciuria. Lascia l'America, va con lo yacht Araner, che sta nel film, su un'isola polinesiana che diventa un'utopica terra di cuccagna multietnica, americani, irlandesi, francesi, cinesi, giapponesi, nativi. Con bambini che cambiano padre e figlie che cambiano vita. Alla festa di Natale, una sorprendente Dorothy Lamour canta Silent Night. Ford aveva già girato un film natalizio più conosciuto, In nome di Dio (1948). Questo I tre della croce del sud non è ugualmente apprezzato. Visto adesso, è il film di un Ford che si diverte, va agli antipodi, cambia mondo e resta se stesso. E se fosse anche questo un capolavoro?
Bruno Fornara