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È una sensazione che abbiamo provato un po’ tutti quest’anno: l’effetto sempre più straniante di vedere rappresentata sugli schermi delle nostre tv e computer la vita prima della pandemia con assembramenti collettivi, persone che si abbracciano e folle che si accalcano, mentre dall’altra parte prendeva forma un’organizzazione sociale sempre più caratterizzata dall’isolamento e dalla distanza. Come se il cinema si fosse separato sempre più dalla nostra vita reale fino a diventare una simulazione di un mondo sempre più lontano. È senz’altro uno dei tanti meriti di A Glitch in the Matrix, di essere stato uno dei film più attuali (oltre che più interessanti) visto al Sundance di quest’anno, non soltanto perché è stato girato interamente attraverso simulazioni grafiche e interviste su Zoom, ma anche perché sul tema della smaterializzazione del reale si è dimostrato capace di riflettere con una profondità davvero sorprendente. Mentre tutti i film passati durante questa settimana di festival ci hanno fatto vedere il mondo come era fino all’anno scorso (e come speriamo possa tornare a essere presto) questo è l’unico film autenticamente e pienamente “pandemico”. Il tema è noto e circola ormai da qualche anno e ha preso il nome di simulation hypothesis. L’idea di base recita più o meno così: e se il mondo che ci circonda fosse soltanto una simulazione? E se quello che abbiamo sempre definito realtà venisse in realtà generato da computer potentissimi che ci danno l’illusione di vivere in questo mondo a fronte di una realtà completamente diversa e a noi sconosciuta? L’idea circola nella filosofia da secoli, dal mito della caverna platonico fino al Dio maligno cartesiano ma è stata riproposta di recente da filosofi come Nick Boston, media theorist come Emily Pothast, celebrity/troll come Elon Musk fino a tutto una comunità più o meno underground di paranoici invasati di fantascienza o semplicemente sbroccati con molta immaginazione che ne hanno coltivato il mito. Tuttavia dietro a una delle tante forme di paranoia contemporanea c’è una riflessione tutt’altro che banale, che tenta di pensare alle conseguenze di uno scetticismo radicale nell’era della narrativizzazione generalizzata della fake news e del deep-fake. Quello che ne è uscito fuori non è tanto un documentario su una forma bizzarra di marginalità intellettuale, ma piuttosto l’attraversamento di una domanda filosofica di fondo, a cui più che dare una risposta i fan della simulation hypothesis tentano di spostare in alto l’asticella dell’ambizione.


A Glitch in the Matrix

In un festival che ha dovuto rinunciare quasi totalmente alle première dei grandi film indie americani che vogliono fare la corsa agli Oscar (e forse, a detta di molti, è stata anche una fortuna), A Glitch in the Matrix ha fatto parlare di sé per giorni per via dell’unicità e attualità dei suoi contenuti (insieme a Judas and the Black Messiah che esce al cinema il 12 febbraio), e siamo certi che continuerà a farlo ancora nei mesi a venire: verrà distribuito a partire da oggi nelle piattaforme di video on demand e in quello che rimane di aperto dei cinema americani. In effetti è difficile pensare a un film tanto rappresentativo per un’edizione che comunque passerà alla storia del Sundance Film Festival per l’eccezionalità del suo svolgimento. La prima diretta da Tabitha Jackson (che per 6 anni aveva curato la sezione dei documentari) e la prima in cui il Sundance ha raggiunto l’obiettivo (che stava portando avanti da qualche anno) di avere il 50% dei film della propria selezione diretti da donne, è stata anche un’edizione significativamente ridimensionata nelle dimensioni e nel budget (72 lungometraggi contro i 118 dell’edizione dello scorso anno, e tre giorni in meno di festival) e oltre che svoltasi interamente online (e in una manciata di drive-in e cinema all’aperto distribuiti in giro per il paese).


CODA

Il risultato però è stato discreto sia in termini di qualità delle opere presentate che di coinvolgimento del mercato (il vero termometro di un festival dove comunque le acquisizioni dei film fanno parlare ben di più dei premi distribuiti dalle giurie o dal pubblico). Il colpo di cui più si è parlato è stato quello di CODA di Siân Heder, comprato da AppleTV+ per 25 milioni di dollari (record di sempre al Sundance, che ha battuto Palm Springs dell’anno scorso), che è stato anche il film che ha vinto il premio della giuria e quello del pubblico nella sezione “U.S. Dramatic Competition”. Ci sarebbe da riflettere su questa convergenza di pubblico, giurie e mercato (fenomeno non nuovo nei festival degli ultimi anni, a partire da Venezia) che quest’anno al Sundance ha sfiorato quasi il ridicolo visto che la stessa cosa è accaduta anche nella sezione dei documentari e dei film di fiction internazionali, ma è forse un segno che i processi di canonizzazione culturali ormai non esistono più al di fuori del mercato. E forse è anche una conseguenza della progressiva delegittimazione o scomparsa di istituzioni culturali che riescano a guardare al cinema secondo criteri autonomi che non siano quelli dell’hype da social network o del chiacchericcio d’attualità (e che si accompagna anche alla crisi della critica) ma le cui ragioni andrebbero ricercate in processi di lungo periodo e di cui forse il mondo del cinema subisce le conseguenze più che esserne fino in fondo la causa.


On the Count of Three

CODA in ogni caso è un film godibile e di sicuro successo commerciale: coming-of-age su un’adolescente che lavora in un piccolo peschereccio a conduzione familiare di un paesino del Massachusetts insieme a una famiglia affetta da completa sordità (la madre, il padre e il fratello più grande) mescola perfettamente gli ingredienti del teen-movie e quel tanto di riflessione sulla disabilità da renderlo godibile per il pubblico semi-colto del mercato del cinema indie americano. E tuttavia dietro alla formularietà del prodotto (in realtà un remake di un mediocre film francese di qualche anno fa) vi sono comunque un paio di idee interessanti.  Accanto al solito confronto con la legge familiare tipica di tutti i romanzi di formazione – dalla quale è necessario emanciparsi per poterla confermare secondo il classico principio americano per cui per guadagnare qualcosa c’è bisogno prima di essere pronti a sacrificarlo – qui la situazione si rovescia. Perché nel confronto con la disabilità i rapporti di forza si complicano e la figlia da elemento debole è anche l’unica non-sorda da cui la famiglia dipende in termini simbolici ed economici. Accettazione sociale, accesso all’età adulta e mobilità sociale finiscono ovviamente per rafforzarsi l’un l’altro secondo la tipica consolazione ideologica dei film di questo tipo. Molto più disturbante (e quindi interessante) è il film che ha vinto la migliore sceneggiatura, On the Count of Three, scritto da Ari Katcher e Ryan Welch, e diretto da Jerrod Carmichael: un dramedy su due amici che decidono di posporre di 24 ore il loro suicidio per trascorrere l’ultimo giorno su questo mondo. Si tratta di un film esplicitamente debitore del cinema dei fratelli Safdie ma che riesce giocando sulla prevedibilità dell’unità di tempo e sulla sospensione di ogni legge morale a inanellare una tale serie di trovate da renderlo una delle cose più interessanti di questa edizione (con una grande interpretazione di Christopher Abbott). Da segnalare nel concorso americano anche Jockey di Clint Bentley (per cui ha vinto il premio per la migliore interpretazione Clifton Collins Jr.), un film dal vago sapore eastwoodiano su un fantino in declino a fine carriera e su una storia di paternità d’elezione ambientato nell’ambiente delle corse dei cavalli dell’Arizona (comprato da Sony Pictures Classics). E Superior di Erin Vassilopoulos, un thriller psicologico ambientato negli anni 80 ultra low-budget girato in 16mm sul rapporto simbiotico tra due gemelle e su una crisi d’identità: tra Lynch e Yann Gonzalez un film molto poco da Sundance e con diverse spunti interessanti.


Hive

Nel concorso internazionale in una specie di plebiscito il premio per la miglior regia, quello della giuria e quello del pubblico sono andati tutti al kosovaro Hive di Blerta Basholli, storia di ambientazione rurale su una donna che a fronte della quasi certa scomparsa in guerra del marito (che lei attende da anni insieme al suocero) prova a guardare avanti e a iniziare una piccola attività commerciale di produzione di ajvar, la celebre salsa balcanica e base di peperoni. A fronte di un villaggio che la osteggia per ragioni di arretratezza culturale e sessismo, Blerta Basholli costruisce una storia di resilienza femminile che non può che piacere al pubblico americano, anche laddove sia possibile scorgervi ambiguamente più di uno stereotipo (la politica è lasciata sullo sfondo, in primo piano rimane solo la sofferenza di un popolo generico, secondo il più trito luogo comune sui diritti umani e il cinismo dei politici). È interessante notare come anche nei film non americani sia possibile riscontrare tutti gli elementi ideologici tipici del cinema moralista indie americano, come quello che vede l’emancipazione personale e soggettiva accompagnarsi sempre a un’emancipazione economica (nella forma in questo caso dell’accettazione dei valori imprenditoriali, mentre in CODA si trattava di accedere al college in vista di una certa – sic! – mobilità sociale).  Tuttavia, se la sceneggiatura di Hive lascia ampiamente a desiderare, la regia è interessante e mostra più di un aspetto di originalità soprattutto nella gestione della profondità di campo e in una moderazione nell’uso di primi piani e contrappunti emotivi rara in questo tipo di cinema.


Summer of Soul (… Or When the Revolution Could Not Be Televised)

In conclusione da segnalare il debutto alla regia del musicista Questlove (produttore, DJ, e batterista e leader dei Roots) che ha vinto il premio della giuria e quello del pubblico nella sezione dei documentari americani con Summer of Soul (… Or When the Revolution Could Not Be Televised), un film di montaggio (con qualche minimo inserto di “teste parlanti”) sull’Harlem Cultural Festival, una serie di concerti tenutesi nell’estate del 1969 a New York al Mount Morris Park e che ha rappresentato uno dei momenti simbolicamente più alti della cultura black degli anni Sessanta. Nonostante fosse stato interamente ripreso da una produzione televisiva professionale, le immagini di questo festival sono rimaste chiuse in un magazzino per più di cinquant’anni, messe in ombra da un altro festival che ebbe luogo solo qualche miglio più a nord in quella stessa estate a Woodstock e che divenne il simbolo di una generazione. Questlove fa la scelta migliore (e forse l’unica possibile) e lascia quel tanto di respiro che basta a quelle immagini per valorizzarne tutta la loro potenza. Non c’è bisogno di granchè di commenti quando si hanno Nina Simone, B.B. King, The 5th Dimension, Gladys Knight & the Pips, Stevie Wonder, Chuck Jackson, Abbey Lincoln, Max Roach, David Ruffin dei Temptations. E la scena in cui Mahalia Jackson e Mavis Staple cantano Precious Lord, per ricordare Martin Luther King (era la sua canzone preferita) a pochi mesi dalla scomparsa introdotte da Jesse Jackson, o l’incredibile set di Sly & the Family Stone valgono da soli il film. Ma forse, a pensarci bene, anche l’intero festival.