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I Used to Sleep on the Rooftop di Angie Obeid

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Nuhad è una donna siriana di 53 anni che nel 2015, a causa della guerra civile, ha deciso di abbandonare Damasco. Si è dunque trasferita a Beirut, in Libano, dove condivide l’appartamento con Angie Obeid, giovane regista ventisettenne. Tra le due donne, così diverse per età, origine e modo di affrontare la vita, nasce un legame simbiotico, fondato sul comune desiderio di trovare un posto nel mondo: Nuhad desidera rifondare la propria esistenza, lasciarsi alle spalle il sanguinoso scontro civile siriano e trasferirsi in Germania; Angie, invece, nutre la speranza di portare il suo cinema in territori più fertili e meno difficili, magari muovendosi proprio in Europa.

Sebbene in I Used to Sleep on the Rooftop, documentario libanese diretto dalla stessa Obeid  ruoti attorno a una vicenda di per sé convenzionale, la regista dà vita a un lavoro intimo, stratificato, fondato sul difficile rapporto tra la libertà personale e la costrizione oggettiva della realtà. Ecco, dunque, che l’intera pellicola si gioca attorno al dilemma del vivere una realtà doppia in uno spazio-tempo unico: le due donne coesistono fisicamente in un luogo ma fantasticano di essere in un altro (in Europa, in Germania).

Questo contrasto tra volontà e realtà, tra essere e dover essere, è scandito dallo sguardo brutale e invadente della macchina da presa che, collocata sempre in posizione fissa, ci mostra la quotidianità, spesso sofferta e trattenuta, di Nuhad e Angie. Trovatesi a condividere lo stesso spazio e, seppur con obiettivi differenti, i medesimi sogni, le donne maturano un legame di reciproca fiducia, basato sulla condivisione e sulla compassione. Tuttavia, se gli elementi espressivi del lavoro si mantengono su un livello perlopiù tradizionale, ciò che colpisce à l’atto voyeuristico della visione.

Nonostante la riservatezza di Obeid, testimoniata dalla volontà di mostrare, tramite un puzzle cronologico in cui è difficile orientarsi, gli attimi emotivamente meno coinvolgenti della loro coesistenza, il film resta sempre sulla soglia tra il dentro e il fuori. Si tratta di un oscillare continuo tra intimità (talvolta si osserva Nuhad mentre dorme, oppure la si riprende in occasioni di importanti telefonate con la famiglia) ed estraneità (talora, invece, la camera rimane distante, lontana dai corpi, quasi ad indicare una visione distaccata ed esterna della vicenda), dove ciò che lega i due ambienti è la costante presenza dell’inanimato (il ventilatore, il terrazzo, le finestre, il laptop).

Il vero nucleo attrattivo del film, dunque, è rappresentato dall’appartamento, dal mobilio, dai divani consunti sui quali le donne si siedono, dal materasso che Nuhad ripone ogni sera sul balcone, dal pavimento che viene lavato di continuo. Attrazione verso l’inanimato e candida repulsione nei confronti del presente. Questi sono i due estremi di I Used to sleep on the rooftop. E non è un caso che il film si concluda con l’immagine simbolica e metaforica dell’appartamento, spoglio e svuotato di ogni cosa: tanto dei corpi che un tempo vi abitavano quanto degli oggetti che vi esistevano.