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Un beau soleil interieur di Claire Denis

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“Quando non sei innamorata, cosa fai?”.

I frammenti del discorso amoroso barthesiani sono per Claire Denis anche frammenti di corpi. I corpi dei personaggi, i corpi degli attori, il corpo di un film. Per una regista abituata a mettere in scena per brani, passi bruschi, improvvise epifanie, questo film potrebbe sembrare una naturale evoluzione. E invece Claire Denis non soltanto cambia strada rispetto a un immaginario estetico ormai documentato, ma sceglie perfino il corpo dell’idioletto meno previsto, lei che è sempre ricorsa all’assenza, invece che all’abbondanza; alla sottrazione, invece che all’eccesso.

Frammenti fisici, dunque, ma questo è scontato nel cinema denisiano. Più di tutto, però, frammenti di una lingua impossibile da parlare, e forse anche da ascoltare. Un beau soleil interiéur è fatto di brandelli di parole che non riescono a riempire una vita come dovrebbero o potrebbero; cocci grammaticali, sintagmi sospesi, sintassi tagliate. L’espressione è qualcosa che si fa fatica a esprimere; l’espressione amorosa, per di più, è inattendibile.

Nel film più “francese” di tutti i film francesi di Claire Denis (che dalla “poetica francese” quale enunciato e grammatica cinematografici è rimasta costantemente e testardamente distante), in un film che parla d’amore e di bisogni d’amore senza mai trovare la frase corretta o il periodo più conforme, dove le persone rivelano il proprio privato ma ne restano infine imbarazzate e loro malgrado travolte, lo stile è inversamente proporzionale al caos dialettico, contrario di verso. Mai visto un film di Claire Denis così “tagliato”, così sobrio, essenziale, astratto senza in verità esserlo, in cui l’ellisse è di per sé una parola, benché una parola che manca. Un film di soli interni (e anche quando per strada, sembra di stare chiusi in una stanza), di inquadrature tutte necessarie, tutte fondamentali, non ce n’è una fuori posto o di troppo; un film di primi piani (e Juliette Binoche ne sopporta alcuni con coraggio enorme), di dettagli (quelle mani…) e di piani sequenza che non diventano mai né soggetti né verbi, cioè non determinano mai il senso della scena con perentorietà, anzi se ne allontanano, pudichi; un film in cui i tragitti in auto, come già in Les salauds (2013), sono delle subordinate meravigliose. Un film paratattico, nel quale la paratassi migliore e più sorprendente giunge in fondo, improvvisa, folgorante: con l’entrata in scena geniale di Gérard Depardieu (che poi è un’uscita, come nel finale di Police di Pialat), Claire Denis interrompe un film per farne partire apparentemente un altro. Invece è la conclusione aperta, “open”, di un discorso che ovviamente non può trovare conclusione, un discorso amoroso che non ha termine perché i punti e gli a capo, come i dunque e i quindi, non riescono a sopportare la responsabilità di una vita tutto sommato – e per fortuna - ancora da scrivere. Una pagina bianca.