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Discards di Ishaan Ghose

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«C’è il paradiso e c’è l’inferno, e in mezzo ai due questo luogo dove tutto va inesorabilmente a finire». Così uno dei personaggi di Discards di Ishaan Ghose, il figlio del grande Goutam, a definire in modo icastico ed efficace l’enorme discarica a cielo aperto nei dintorni di Calcutta, a fianco del fiume Yamuna. Un vero e proprio girone infernale, montagne di rifiuti, fiamme nel buio a bruciare ogni sorta di scarto, una macchina da presa a mano che insegue esseri umani che si aggirano roboticamente, ora a razzolare cose che possono realizzare un utile, ora a inseguire cinghiali per farli arrosto, ora a sventrare carcasse di cavalli già mezzo imputridite.

Una oscena promiscuità tra cose, umani, morte e vita, accompagnata da una colonna sonora disturbante, sovrastata da un cielo perennemente plumbeo dove passano in alto aerei irraggiungibili verso cui si indirizzano le ridicole gesticolazioni degli umani laggiù. Una fauna derelitta che incrocia pietà e tenerezza, schifo ed estasi, erede diretta del grande filone neorealista del cinema bengalese, da Ray in giù. La fotografia grigia, spenta, inquadra matti, disperati, rovinati, esseri che cercano stoicamente di resistere, di strappare ai rifiuti qualcosa che possa concedere un giorno di più di esistenza. Senza nessuna speranza, senza nessuna illusione. Conta solo l’oggi, il qui ed ora.

Dentro questa fauna, la macchina da presa isola alcuni individui, i due “eroi” Ganesh e Bokul, un eunuco deriso da tutti, un nano lynchiano che crede sinceramente di avere un lavoro diverso. Attorno a loro, le cinghie trascinano i rifiuti per separare lo schifo dall’ancora più schifo, le ruspe spazzano inesorabili gli avanzi di una civiltà marcita, prese d’assalto dagli umani, rammentando i mulini a vento assaliti da don Chisciotte. I nostri eroi, che passano la notte sotto i ponti e litigano tra loro sulle percentuali degli ipotetici guadagni, mimano continuamente il gesto di sparare in ogni direzione, soprattutto verso gli uccelli che svolazzano sopra la spazzatura e gli aerei che indifferenti sorvolano il mondo di merda laggiù, e c’è anche il matto che usa le ossa come facsimili di pistole. Però, in questo disastro, poeticamente la macchina da presa si sofferma spesso su intensi primi piani dei volti dei nostri sopravvissuti, facendo intuire che la resistenza umana all’abisso della perdizione è più forte di ogni cosa, e può passare attraverso ogni disastro. Anche se, si mormora, presto al posto della discarica ci saranno hotel di lusso e grandi giardini.

La globalizzazione non sopporta recinzioni di scarti di se stessa,  evidentemente.