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Due film da Le Stanze di Rol, sezione indipendente del Torino Film Festival, uno sostanzialmente deludente se pur ricco di pretese (forse proprio per quello), l’altro una magnifica riuscita.

Il primo è The Strings del canadese Ryan Glover, un one-woman-show, protagonista assoluta una musicista che ha appena sciolto la band e si è separata dal compagno. Due traumi che, sommati, l’hanno prostrata fino alle lacrime. Per riprendersi, sale sull’auto e guida, attraverso un panorama innevato, lungo la costa selvaggia del Canada fino a uno sperduto cottage che appartiene a una zia. Qui, tira fuori le sue apparecchiature e si mette a comporre musica e canzoni. Inframmezza le composizioni con passeggiate solitarie lungo la costa, fino a una baia interamente ghiacciata. Evidente il parallelo tra il paesaggio esterno e quello interiore della ragazza. Due fatti intervengono a modificare il tran-tran, interrotto all’inizio solo da telefonate con una sua collaboratrice.

Il primo, l’incontro, per un servizio, con una fotografa caruccia che si invaghisce di lei e a cui corrisponde in qualche misura. Il secondo, ben più inquietante, l’inizio di apparizioni fantasmatiche nella casa o nei dintorni, accompagnate da fenomeni di telecinesi, spostamenti di oggetti, strani rumori e vibrazioni. Insomma, il cottage si trasforma nella più classica delle haunted houses della tradizione horror. La scoperta di una dimensione sovrannaturale porta la ragazza a confondere rapidamente realtà e allucinazione. L’atmosfera coinvolge anche l’amichetta fotografa, che finirà per restarne vittima. La parentesi si chiude, la ragazza torna ad esibirsi dal vivo, dando l’impressione che il tutto potrebbe anche essere frutto della sua immaginazione fervida.

Il film si incarica di accumulare indizi e contemporaneamente di smentirli, in modo da non chiarire se gli effetti disturbanti siano o meno causati da fattori interni o esterni (naturalmente, in passato, la casa era stata  teatro di eventi luttuosi. Sta di fatto che la maniacale attenzione a non scoprirsi mai troppo finisce per dilatare i tempi di attesa, neutralizzare i colpi di scena, portare a conseguenze un po’ soporifere l’attesa che “qualcosa accada”. L’ambizione era quella di produrre un horror non solo d’interni ma “d’interno”, che sgorgasse dalla psiche del personaggio principale (da qui anche la scelta in favore di una fotografia virata sugli scuri); ma non possiamo dire che tale ambizione sia supportata da immagini all’altezza e da una regia che vada oltre la cura del dettaglio.

Il secondo è What Josiah Saw dell’americano Vincent Grashaw. Anche qui ritroviamo un esempio di haunted house, questa volta una fattoria in dissesto materiale e morale nel cuore del Texas. Anche qui abbiamo un evento luttuoso accaduto nel passato: la madre di famiglia si impiccò misteriosamente, producendo la dispersione di tutti i membri. Ora sono rimasti solo il padre e uno dei figli, alcolizzati e in perenne conflitto, succubi di fantasmi e incubi. Il tono è quello american Gothic alla Non aprite quella porta, con uomini preda di tare ereditarie compreso il cretinismo e una tendenza a perversioni sessuali e criminali; lo stile della macchina da presa è lento e ieratico, con una capacità notevole di fissarsi in inquadrature sempre pregnanti, in composizioni figurative che rammentano i quadri di Benton, Bellows, Ben Shahn, naturalmente Grant Wood e Andrew Wyeth, le fotografie di Steichen.

In generale, pur ambientato nell’America contemporanea, il film esprime un’aura arcaica, fuori dal tempo, supportata da un intreccio di diabolica dannazione, annodato a un destino che attende tutti i personaggi con inesorabile fatalità. Il gran pregio del film è la sua costruzione per capitoli, un po’ alla Pulp Fiction, di cui di volta in volta uno dei personaggi è il protagonista, invischiato in situazioni complicate e drammatiche. Ad esempio, uno dei figli, drogato perso, ridotto a vivere in un caravan abbandonato nel mezzo del deserto texano, è obbligato, se vuole sopravvivere, ad imbarcarsi in una pericolosa missione: rubare dell’oro a una banda di cazzuti nomadi. Tutte le deviazioni e divagazioni vengono però a ricompattarsi nel finale ad alta tensione, in cui i vari membri della famiglia disastrata si ritrovano nella farm per un confronto che non può che essere tragico. Gli oscuri segreti di natura sessuale vengono scoperchiati con effetti fatali. Un horror realistico, altamente suggestivo, con un tocco di immaginifico (le sorprese sono tante, vi assicuro). Il paesaggio archetipico americano, con i suoi bar, diner, motel, con le sue strade e stazioni di servizio, con i suoi deserti e le sue smalltowns, viene fuori con icastica bellezza e avvolge una storia anch’essa archetipica, fondata com’è sulla categoria dell’Incesto, una scena primaria che sta alla base della costruzione della civiltà in territori geografici e psicologici solitari e abbandonati a loro stessi.