Femme Fatale, 2002

Femme Fatale

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Riflesso in uno schermo scuro. È così che intravvediamo per la prima volta il volto solo in apparenza angelico di Laure, impastato con la scena rivelatrice di La fiamma del peccato di Billy Wilder, con i primi piani di Fred MacMurray e Barbara Stanwyck. Nel frattempo scorrono i titoli di testa e, lentamente, la macchina da presa arretra, svelando il corpo nudo della giovane, di spalle, e, sostituito al suo riflesso, in bianco e nero, Stanwyck che dichiara «I’m rotten to the heart, I used you just as you said». Non è solo una dichiarazione d’amore al noir, questo inizio, è anche un’esplicita reinterpretazione di uno dei capolavori della pittura barocca, la Venere Rokeby di Velázquez: la seduzione del corpo e l’inafferrabilità dell’anima, senz’altro, ma anche, con un meno esplicito rimando alla struttura del più famoso Las Meninas, un gioco in cui tutto sembra al proprio posto, ma qualcosa non lo è. È spostato, estremo, superiormente zarro, il De Palma di Femme Fatale, in questo suo rincorrere un’idea di Europa, dal Palais di Cannes alle piazzette di Parigi, dal Barocco spagnolo a Jacques Demy, accompagnato da un onnipresente ricordo hitchcockiano, sospinto e rincorso dal Bolero di Ravel, riscritto da Sakamoto: variazione, accelerazione, ripetizione.