Quando Giacomo, ancora residente a Recanati, si reca nella casa di fronte per porgere l’estremo saluto alla dolce vicina, morta in giovane età, c’è un breve momento emblematico di regia e di montaggio. Nella stanza in cui riposa il corpo della ragazza, Giacomo si ritrova fra altre persone di fronte al letto di morte, in seconda fila; con uno scatto improvviso, e del tutto scandaloso, si fa di lato per farsi strada e ritrovarsi così davanti. È un gesto di sfida sociale, inaccettabile, sfacciato e prontamente ripreso; è un gesto per vedere meglio, che Martone, il montatore Jacopo Quadri e il compositore delle musiche Sascha Ring mettono in scena bruscamente, con nervosismo. Solo un dettaglio, come ce ne sono tanti in Il giovane favoloso, eppure significativo: perché è anche così che il regista chiarisce l’idea che sta alla base di questo capolavoro.
Non un film sull’aspirazione all’infinito o banalmente sull’imprigionamento di un animo ribelle, e neanche un’oleografia scolastica (tantomeno per le scuole): Il giovane favoloso, con tutta la sua brama di conoscenza, la sua impertinenza e il suo voler vedere meglio, racconta del diritto al sentimento. Il Leopardi di Martone è un uomo che sceglie la pretesa per i tempi meno facile, quella del privato. Il poeta chiede il diritto all’infelicità: ma se il suo nichilismo è noto, per Martone ciò si risolve in un’inesauribile e per l’appunto scandalosa certificazione della vita e per la vita.
Il giovane favoloso non è un inno alla morte come specchio di un’epoca buia e dunque come inevitabile destino del mondo, bensì un atto di coscienza, l’ammissione di una bellezza che vive forse oltre, oltre l’umana specie e oltre l’umana comprensione, ma comunque vive. La confessione in prima persona di un amore senza misure.
Un film illuminista, mai viscontiano ma anzi profondamente felliniano (e molte delle scene ambientate a Napoli sembrano venir dritte da Roma), un Casanova desessualizzato riflesso su una superficie deformante. Tanto che Martone insiste sempre più spesso sulla natura freak di Leopardi, sul suo ingobbirsi e strisciare (ed è bene ammetterlo, Elio Germano è monumentale): però più che metafora di un peso insopportabile caricato su spalle fatte solo di cultura, e dunque gracilissime, mi sembra che questo Leopardi sia l’immagine di un’emozione accartocciata e in disperato bisogno di dispiegamento, un’immagine che urla di essere vista (e ascoltata) non per presunzione o arroganza ma perché il reale - quello di ieri, quello di oggi e senza dubbio quello di domani - ha bisogno del bello, di cui Leopardi si fa portavoce sfrontato.
E Martone questa emozione la distende con una limpidezza che non ha niente dell’accademia, e che la luce e le ombre di Renato Berta esasperano: invece di curvarsi come il suo personaggio, Il giovane favoloso si libera via via della sua irrequietezza (che nella prima parte a Recanati è quasi accecante, mentre a Napoli è scura come la pece), fino al più completo splendore lineare. Così Martone conquista ciò che Leopardi osava bramare, l’incanto di una realtà che esiste nonostante la realtà stessa, una realtà che la persona è chiamata a esigere, la realtà propria che non ha niente da spartire con quella delle masse e dei tiranni. Una realtà di vita che dev’essere un diritto di tutti e che per Martone è un dovere (principalmente come cineasta) indicare come strada privilegiata da percorrere.