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King of the Belgians di Peter Brosens e Jessica Woodworth

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Dopo il successo riscosso con La quinta stagione, presentato in concorso proprio a Venezia nel 2012, Peter Brosens e Jessica Woodworth tornano al Lido con King of the Belgians, mockumentary picaresco che racconta la fuga dell’ultimo re dei belgi, Nicolas III.
 

Durante una visita ufficiale a Istanbul in occasione dell’imminente entrata in Europa del paese di Atatarük, accompagnato dal Capo di Protocollo, dall’addetta stampa, dal fedele valletto e dal regista britannico Duncan Lloyd ‒ incaricato di girare un documentario volto a celebrare l’umanità del sovrano ‒, l’entourage del re riceve l’assurda notizia che la Vallonia ha dichiarato la propria indipendenza. Il re deve subito rientrare in patria per salvare il Paese, ma un’improvvisa tempesta solare determina la chiusura degli spazi aerei e la paralisi di tutti i mezzi di comunicazione.
 

Costretto dal capo della sicurezza turca ad abbandonare l’ipotesi di un viaggio di ritorno, Nicolas III decide di seguire il folle piano di fuga di Lloyd dando vita alla segreta odissea che lo condurrà attraverso i Balcani. Tra canti polifonici bulgari, l’incontro con un cecchino serbo e un concorso sul miglior yogurt agricolo, Brosens e Woodworth decidono di abbandonare le velleità intellettuali ed esistenzialiste del lavoro precedente, optando per un registro surreale e grottesco che descrive con ironia e leggerezza l’instabilità politica europea.
 

Nicolas III è un re claudicante, ingabbiato in regole di protocollo troppo rigide, un legnoso burattino dal corpo ingombrante che non ha contatti col mondo se non attraverso visite istituzionali. Non è un caso che la prima scena di King of the Belgians sia un’inquadratura leggermente fuori asse: in pochi secondi i due registi belgi mostrano l’instabilità del potere politico, la formalità di un mondo distante dalle preoccupazioni quotidiane, l’incapacità di conservare un potere sovrano nei tempi della mondializzazione. Per tutti i successivi 95 minuti, il film tenta poi di ripristinare le giuste coordinate spaziali di quella prima, inaugurale inquadratura e lo fa tramite la boriosa messa in scena della fuga del re e del suo variopinto staff.
 

Tra il Bolero di Ravel e L’inno alla gioia di Beethoven (cantato rigorosamente in bulgaro), il tentativo dei due registi belgi è riuscito parzialmente: il ritorno in patria si trasforma prevedibilmente in un road movie, per di più molto controllato e trattenuto da incontri e siparietti dove la riscoperta dell’umanità del re, vero e dichiarato obiettivo del mockumentary, non può che emergere con fin troppa chiarezza.

Tuttavia, King of the Belgians ha il pregio di rappresentare il grottesco nella meccanica di potere. Un re senza regno, incapace di scrivere un discorso riappacificatorio, allampanato e impotente di fronte agli eventi è la perfetta espressione di un sovrano “ubuesco”, ridicolo e apparentemente ignobile. Eppure, proprio la sua volontaria natura grottesca finisce col riattivare la sua posizione istituzionale e moltiplicare gli effetti di potere. Nicolas III è sì un re, ma un re della derisione che agisce indossando una maschera clownesca e mostra come l’indegnità del potere non finisca con l’annullarne gli effetti, bensì con l’accentuarli.

Per questo King of the Belgians è un film importante. In un mondo dove il potere politico si prende troppo sul serio, Brosens e Woodworth mostrano la potenza del ridicolo poiché, dopotutto, la più grande instabilità è sempre la conseguenza di qualcosa un poco fuori asse.