Orizzonti

Caniba di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor

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L’11 giugno 1981 Issei Sagawa, rampollo di una ricca famiglia giapponese, durante il suo soggiorno parigino, uccide l’amica Renée Hartvelt e ne fa a pezzi il corpo. Quando lo trova la polizia, ne ha divorati più di sette chili e la storia di Issei diventa uno scandalo internazionale. Dipinto dalla stampa come l’autore del più inenarrabile dei crimini, Sagawa diventa il protagonista di quella che prende ben presto le sembianze di un racconto coloniale: il corpo egemonico della donna bianca viene profanato e brutalizzato dallo straniero giapponese. Dopo essere arrestato, Sagawa fu dichiarato inabile a sostenere un processo e, grazie alla mediazione paterna, fu estradato in Giappone, dove venne liberato dopo soli quindici mesi. Nel suo paese, l’assassino divenne una macabra star: scrisse libri, partecipò ad alcune trasmissioni televisive e perfino a qualche lavoro pornografico. In breve, lo stupore sensazionalistico cancellò l’uomo e il crimine venne normalizzato, ricondotto alla narrabile quotidianità della cronaca nerissima. 

Caniba di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor è un lavoro che si ripromette di tornare all’uomo, Issei Sagawa, al cannibale, e al rapporto perturbante con il fratello Jun. Se la sovraeccitazione dei media creò un’immagine razzista e perlopiù spettacolarizzata della tragedia, i registi seguono il movimento contrario: l’aurea distante dell’assassino-star diviene prossimità della pelle, percezione aptica del morboso, rappresentazione insana e claustrofobica del tabù originario nella sua inaccessibile follia.

Invece di schermarsi attraverso una facile indignazione o produrre un’opera che soddisfacesse l’attrazione voyeuristica per il grottesco e l’orripilante (tentazione castrata di continuo grazie a un’immagine costantemente fuori fuoco), Castaing-Taylor e Paravel scelgono di frammentare il corpo di Sagawa con primissimi piani concentrati, di volta in volta, sulla bocca, sugli occhi e sulle mani dell’uomo. La volontà di non contenerlo nell’inquadratura riflette non soltanto l’esigenza di concentrarsi sulle zone d’espressione della pulsione cannibale (quelle di Sagawa non sono delle mani, ma le mani che hanno tagliato un corpo con lo scopo di cibarsene; così come quella è la bocca della divorazione), ma soprattutto il tentativo di ascoltare, mediante una vicinanza quasi stordente all’homo cannibalis, l’inespresso e l’indicibile.

Il corpo come sostanza che gode e come luogo del godimento: questo è l’assunto di partenza dei registi. La prossimità assoluta del loro sguardo, ai limiti del pornografico, è espressione di una ricerca estetica e filosofica che non trova rifugio in alcuna razionale verbalizzazione. Questo perché le parole di Sagawa, spesso deliranti, sconnesse, confuse (che definiremmo pure poetiche se non fossero proferite dal mostro), conducono la rappresentazione sul livello virtuale dei simboli e delle identificazioni allusive. Non ci si può fidare, dunque, di ciò che dice il cannibale. Non lo si può comprendere: lui è l’Altro, colui che deve essere tenuta a distanza, l’inavvicinabile.

Per questo Caniba è un lavoro antropologico basato sull'osservazione e sull’espressione sintomatica del corpo. Ecco, dunque, che è necessario soffermarsi sulla gestualità rituale e patologica di Sagawa, sul suo bisogno di possedere e di essere posseduti, sulla masticazione (è con questa serenità che si è cibato del corpo dell’amica?) e, in generale, su tutte le movenze che tradiscono la perpetua insoddisfazione dei suoi desideri (di vita, di morte).

L’operazione esprime una vicinanza ancor più radicale al cannibale. Abbattuti gli schermi protettive e sfocata l’immagine reale del mostro, Castaing-Taylor e Paravel sono pronti a riaccogliere l’uomo e il crimine commesso all’interno della comunità umana. A partire dall’etimologia meticcia del termine (che deriva per alterazione dai caribe, popolazioni delle Antille che si nutrivano di carne umana, o forse da Cristoforo Colombo, che senza aver mai incontrato il popolo caribo, ma influenzato dalle narrazioni della loro ferocia e dall’idea che possedessero un solo occhio e una faccia da cane, associò il nome caniba alla radice latina canis), il cannibalismo è sempre stato oggetto di esclusione.

Il cannibale ha trasgredito alla Legge, è l’indegno, il non-più-umano e come tale deve essere trattato. Sia che venga compreso come insana star nazionale, sia che lo si cacci, anche solo simbolicamente, dalla tribù di appartenenza, l’homo cannibalis è l’uomo genealogico che con il suo crimine ha osato troppo, collocandosi in un’origine inaccessibile e fintamente dimenticata. 

Caniba tenta di riappropriarsi del cannibale stesso e del gesto cannibalico, lo mostra vicino e troppo umano. L’intenzione non è quella di comprendere, perché ciò che Sagawa dice e fa (e così anche il fratello Jun, unito simbioticamente dalla medesima pulsione trasgressiva) è l’incomprensibile.

Che emozione genera, dunque, un film come Caniba? Scandalo e rigetto, forse. Ma soprattutto terrore: il terrore che si prova guardando l’origine e, con essa, la lancinante volontà della sua inesistenza. Percependone, però, in luogo remoto e silenzioso del nostro essere, la sua fascinosa attrazione.