Fuori Concorso

Jim & Andy: the Great Beyond – The story of Jim Carrey & Andy Kaufman with a very special, contractually obligated mention of Tony Clifton di Chris Smith

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Se Andy Kaufman in vita sua avesse scritto almeno una volta di cinema, probabilmente avrebbe ricopiato parola per parola la sceneggiatura di un film; con il video a disposizione, magari, avrebbe pubblicato gli screenshot di ogni inquadratura, secondo per secondo. Come quella volta che lesse per intero Il grande Gatsby nell’auditorium di una facoltà universitaria.

Se Jim Carrey nel corso della sua carriera ha mai avuto l’idea di scrivere di cinema, probabilmente ha fatto di tutto per nascondersi dietro il linguaggio, usando aggettivi a casaccio, cercando di essere il più banale possibile e utilizzando le medesime parole per scrivere di film diversi. Come quella volta che interpretò Andy Kaufman in Man on the Moon e si nascose così bene nel personaggio da perdere la nozione della propria identità.

Se Tony Clifton, infine, ha scritto di qualche film, e soprattutto di Man on the Moon con Jim Carrey, ha sicuramente detto che fa cagare e che chiunque lo abbia apprezzato non capisce un cacchio di cinema. Come quella volta – come tutte le volte – in cui si è esibito su un palco e ha insultato chiunque, colleghi, pubblico e soprattutto Andy Kaufman.

Fingere di non capire, rompere la negoziazione alla base di ogni rapporto o comunicazione. Per rendere la portata destabilizzante di una figura come Andy Kaufman, uomo di spettacolo prima ancora che comico, forse bisognerebbe fare come lui: sfidare le regole non scritte di ciò che si sta facendo, testarne i limiti. E per comprendere la prova di Carrey nel film di Milos Forman bisognerebbe provare a capire cosa separa l’oggetto dal soggetto, l’io dall’altro (in un film da interpretare o guardare, in un testo da scrivere o leggere, nella vita di tutti giorni e nelle infinite finzioni messe in atto anche inconsapevolmente). Cosa ha insegnato il veloce passaggio di Kaufman nel mondo dello spettacolo americano? Davvero le sue apparizioni destabilizzanti riguardavano solo lo show business o non arrivavano a coinvolgere anche le regole del vivere sociale?

Se così non fosse, perché Carrey s’immerse così a fondo nel personaggio da interpretarlo soprattutto fuori dal set e modificando la percezione dell’originale attraverso la performance della copia? E di conseguenza, al fondo delle mille riflessioni che si potrebbero fare su Kaufman e su Man on the Moon, un pezzo critico sull’argomento, per quanto breve e buttato via, nascendo dalle stesse regole messe in crisi dagli artisti coinvolti nel progetto, non dovrebbe forse chiedersi di cosa parlare e del modo in cui farlo?

L’importanza di Jim & Andy: the Great Beyond – the story of Jim Carrey & Andy Kaufman with a very special, contractually obligated mention of Tony Clifton non sta solamente nel rivelare materiale inedito delle riprese di Man on the Moon (backstage in cui Carrey interpreta Kaufman, Clifton e sé stesso in un’inquietante confusione di ruoli e personalità), o nell’ascoltare dallo stesso Carrey il racconto (vero, falso, costruito a posteriori…) di come arrivò a smarrirsi nella personalità di un comico che con le sue performance aveva sfidato i concetti di finzione e immedesimazione. L’importanza sta anche – e ovviamente soprattutto – nell’usare l’esperienza folle e pericolosa di Carrey, e di rimando quella di Kaufman (la gratuità delle sue provocazioni, il coraggio delle sue follie, la sfacciata, fasulla, autentica prepotenza delle sue performance), come occasione per ragionare sui limiti di ogni forma di discorso e narrazione.

Se si tratta di uno show televisivo in diretta, ad esempio, provare a spezzare il patto segreto fra i compagni di scena o la quarta parete che separa dal pubblico. Se si tratta di un film biografico, rompere la barriera fra attore e personaggio, set e vita reale, riprese e backstage. Se si tratta di un documentario tutto sommato tradizionale (oltre al backstage, niente più che un’intervista a Carrey e materiale d’archivio di Kaufman e Carrey stesso), assecondare così a lungo le parole di un attore da spingerlo a dire che, sì, un giorno forse potrebbe anche diventare Gesù o a vent’anni di distanza da una prova ai limiti dell’autolesionismo osservarlo immergersi in pensieri di mimetismo e sparizione così intensi da avere ancora un barlume di vita.

Se si tratta infine di guardare un film e poi scriverne una recensione, provare a immaginare come sarebbe lo stile dei protagonisti, giocando con il fatto che anche la scrittura è la messa in opera di una personalità, di uno sguardo, e così facendo perdere la misura della propria presunzione.