Concorso

La Villa di Robert Guédiguian

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«Ogni tanto, direi ogni cinque o sei anni, sento una specie di bisogno di fare il punto. Di ritornare nei posti in cui ho girato i miei primi film, ma più che altro di tornare a occuparmi del mondo a cui ho dedicato i primi lavori. È un modo per fare il punto su me stesso, sulla mia intimità, sulla politica, sulla società e sugli ambienti sociali che fanno parte del mio cinema». In un’intervista che concesse a Cineforum nel 2013 (Cineforum 526) Robert Guédiguian rispose così a una domanda circa la “necessità” di fare un cinema politico e privato, incentrato su temi sociali e filmato (quasi) sempre negli stessi luoghi, con (quasi) sempre gli stessi attori. La domanda prendeva spunto dall’allora ultimo film del regista di Marsiglia, Le nevi del Kilimangiaro che è del 2011: guarda a caso proprio sei anni fa.

Con La Villa Guédiguian fa il punto, torna ai suoi temi, alla sua gente, ai suoi luoghi e alla sua luce. Lo fa con nostalgia, che è una costante del suo cinema, ma senza paternalismi, senza retorica a buon mercato e costruendo un’opera tenace e rigorosa. Capace di sintetizzare con grande intelligenza il cinema privato di cui si diceva con uno sguardo politico centrato sul presente, per nulla passatista o malinconico.
C’è la piccola comunità in cui le persone vivono in armonia le une con le altre come in Marius e Jeannette (1997) (il film è girato tutto nel borghetto del calanco di Méjean, poco fuori Marsiglia), c’è la disillusione nei confronti del presente di Lady Jane (2008), c’è il pessimismo di La ville est tranquille (2001) e il senso inclusivo della famiglia del già citato Le nevi del Kilimangiaro e poi ci sono loro: Ariane Ascaride, Gérard Meylan e Jean-Pierre Darroussin, volti corpi e anime dei film di Guédiguian. Questa volta è la storia di una famiglia: gli attori principali sono tre fratelli – divisi dalla vita – che fanno ritorno alla casa in cui sono cresciuti (la Villa del titolo) per prendersi cura dell’anziano padre, costretto a letto in uno stato di quasi totale incoscienza dopo essere stato colpito da un ictus. È l’occasione per chiarire le antiche ruggini, fare i conti col passato e provare a comprendere sbagli, fallimenti e illusioni che hanno contraddistinto i rapporti fra loro, il padre e gli altri membri della comunità che hanno scelto di rimanere. Il tutto mentre sulla costa vicino a Marsiglia naufragano le imbarcazioni dei migranti in fuga dalla guerra.

Se è vero – come diceva Truffaut – che ogni regista gira sempre lo stesso film, per Guédiguian la cosa è ancora più vera. E non perché le trame dei suoi film si somiglino o perché attori e ambientazione siano quasi sempre le stesse. Ma perché dentro l’intimità del suo cinema è racchiusa una visione del mondo che in tanti anni non è mai cambiata. L’onestà dello sguardo, – in un regista che assomiglia come pochi altri al cinema che fa – non ha mai mutato la prospettiva e il punto di vista sulle cose. La dimensione politica, in La Villa, ha lo stesso rigore dei primissimi film del regista e nonostante questo non appare per nulla superata. Il personaggio di Darroussin – che nasce benestante, ha fatto l’operaio ai tempi delle lotte sociali fino a diventare dirigente – pessimista, cinico e disilluso si offende ancora quando lo chiamano borghese. Mentre il fratello che ora, invecchiando, non dice più come una volta “i sentieri dei contrabbandieri” ma dei “doganieri” non è tuttavia cambiato di una virgola. Entrambi, che sistemando le mulattiere che risalgono le scogliere vicino al mare, “ristrutturano” anche il loro rapporto, sanno esattamente – e subito – qual è la cosa giusta da fare quando incontrano i tre fratellini scampati al naufragio del loro barcone in rotta dall’Africa attraverso il Mediterraneo.

E forse sta proprio in questo senso della giustezza, nella misura cosciente, morale e equa – che Guédiguian chiama ancora, ostinatamente, comunismo – il senso del film.
Guédiguian non pone i suoi personaggi contro gli eventi, non chiede loro di cambiare le cose. Ma li spinge ad assumere una consapevolezza. Semplicemente di accettare; accettare la morte di una figlia, la fine di una relazione o perfino la malattia del padre e il lento disgregarsi della comunità. Un’accettazione che non è però sinonimo di rassegnazione. Il regista ce lo dice molto bene che le cose cambieranno in peggio (gli speculatori che trasformeranno il borgo in una località turistica, l’esercito che probabilmente troverà i bambini e li metterà in orfanotrofio) e ce lo dice soffermadosi a descrivere la morte. Ma non una morte letterale – in fondo anche quella dei due vicini di casa che si suicidano insieme, sembra surreale, quasi fiabesca – ma la morte che sta intorno a tutto quanto, che pervade ogni immagine, ogni luogo, ogni raggio di luce. E cos’è se non un’immagine di morte quella breve sequenza dei tre protagonisti giovani, presa da un estratto di Ki lo sa (1985), in cui vitali, spensierati e dissennati scappano da Marsiglia in un assolato pomeriggio estivo per andare a tuffarsi fra i moli dei calanchi della costa? Un’immagine che sa di morte perché parla di un passato che esiste per davvero (quale altro regista può permettersi una tale intensità emotiva semplicemente utilizzando materiale di un suo film di trent’anni prima?) e perché parla di un’estate di mille anni fa che sembra essersi arrestata allora e non poter tornare più. Come non può tornare tutto il resto, anche se non siamo d’accordo.
A proposito: La Villa è girato tutto d’inverno. E forse basta la luce obliqua dell’inverno a fare del film l’oggetto misterioso, malinconico e profondo che è. Più di tutto il resto.