At Eternity's Gate di Julian Schnabel

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Un altro film su Van Gogh? No, in effetti. Nonostante la somiglianza spudorata che sfoggia Willem Dafoe, i luoghi e i fatti della vita del pittore (qui in forma aneddotica e didascalica, là letteralmente inventati), Theo e Paul (Gauguin), le lettere e i quadri (presenti in quantità generosa), perfino la storia degli schizzi ritrovati nel 2016 (veri o falsi, poco importa).

Il film di Julian Schnabel è tutt'altro che biografico, se ne frega del “realismo”, usa i documenti come fonte di ispirazione, non certo di ricostruzione informata. Il suo scopo, da regista-pittore, è parlare dell'atto di creare un quadro, di cosa significhi essere un artista (la storia parte da una ragazza che chiede “perché?”, domanda che gli verrà ripetuta ossessivamente, spesso in soggettive in primo piano). O per dirla alla Schnabel – che non è certo uno modesto: – «L'unico modo di descrivere un'opera d'arte è fare un'opera d'arte».

Ed ecco allora questa meditazione su Van Gogh, o meglio, sulla sua capacità di vedere cose che noi non possiamo vedere, se non attraverso i suoi quadri. L'eternità che legge in un paesaggio piatto. L'energia che pervade l'universo. La luce, divina, sovrannaturale.

Schnabel sceglie spesso il camera a mano e un montaggio sincopato, cerca il movimento, il tratto, il gesto, l'immagine sghemba, usa filtri e fuori fuoco, insegue la frenesia con cui Van Gogh realizzava i suoi quadri, non vuole una banale mimesi della sua opera ma il senso, l'intuizione, la visione fulminante. Quando ci riesce, il film si solleva improvvisamente dal lirico torpore in cui lo fa precipitare una musica invasiva e ridondante. Ci pensa poi Jean Claude-Carrière – mica uno qualsiasi – a dare sostanza agli incontri di Van Gogh, alle sue riflessioni, alla sensazione di essere sempre sull'orlo della follia, a dialoghi notevoli come quello che lo oppone a un prete, a cui Vincent affida la parte di Pilato (visto che lui si paragona volentieri a Gesù).

L'approccio è affascinante – lontano dal solito tragico maledettismo dell'artista incompreso – se non fosse che Schnabel raramente riesce a farci vedere ciò di cui sta parlando. Il problema è tutto lì. Va bene partire dall'immagine nera, dalla tavolozza bianca, far emergere la pittura e la realtà (quella visibile e quella invisibile) dalle parole di Van Gogh, per poi incarnarla nel cinema, ma il cinema deve essere all'altezza dell'ambizione. Tanto per citare un caso recente, Mike Leigh era riuscito a farci vedere la luce di Turner, a farci intuire cosa cercava il pittore inglese. Qui invece quasi mai riusciamo a vedere davvero quell'infinito, quella verità in forma di spazio e colori, quell'altrove sempre vivo e presente, di cui parla Van Gogh. Il film dice ma non mostra.

Certo è che, d'ora in poi, quando penseremo a Van Gogh, ci verrà in mente il volto scavato – ispirato più che sofferente, gentile più che arrabbiato, mistico e visionario più che folle – di Dafoe.