Concorso

Babyteeth di Shannon Murphy

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C’è qualcosa che sta fluttuando nell’acqua, e che lentamente cade a fondo. È un dente. Ma non si ha nemmeno il tempo di capirlo che già compare sullo schermo «Babyteeth», denti da latte. La parola scritta del titolo che presenta l’immagine, rendendola chiara, evidente. Un modus operandi che viene adottato durante tutto il film, scandito in brevi capitoli, ognuno dei quali introdotto, appunto, da una didascalia. Una parola, una frase, il titolo di una canzone che spiegano cosa sta per accadere ancora prima che effettivamente accada.

Babyteeth, opera prima dell’australiana Shannon Murphy, è così, è un film che mette in chiaro le cose da subito, senza mezzi termini. Tutto ciò che vediamo è esattamente come lo vediamo, non si scappa, nel bene e nel male. Una sincerità disarmante e a tratti grottesca che non risparmia nemmeno i personaggi, in una sceneggiatura da cui traspare fortemente la verve tragicomica dell’opera teatrale di Rita Kalnejais, da cui il film è tratto.

Non risparmia Milla, quindicenne malata di cancro che non ha ancora perso il suo ultimo dente da latte; né i suoi genitori Henry, uno psichiatra, e Anna, ex musicista in cura dal marito; né tantomeno Moses, il giovane sbandato per cui Milla si prende una cotta al primo sguardo. È grazie a lui se Milla ritrova la voglia di essere viva, è sempre lui che le fa battere il cuore. Nel senso più letterale del termine, come se fosse proprio Moses l’unico in grado di mantenere costante il ritmo delle sue pulsazioni e tenerla in vita. E il suo cuore continua a battere, batte forte nel momento del loro primo incontro, quando lui finge di buttarsi sulle rotaie, batte ancora più forte quando lei gli chiede di portarla al ballo della scuola.

Milla e Moses cominciano a conoscersi e a sfiorarsi. E come due corpi dalle diverse temperature che pian piano si scambiano calore, ognuno diventa sempre più simile all’altro. L’energia si trasforma ma non si disperde, perché è un bene prezioso che da Moses fluisce a Milla, e da Milla a Moses. Come quando lui le taglia i capelli, rendendole più facile la trasformazione che segue la chemioterapia, o come quando lei insegna a lui come suonare il pianoforte.

La musica è il punto di contatto attraverso cui il calore si diffonde. Quella classica che scivola sulle corde del violino di Milla e, dalle sonate di Mozart e Šostakóvič, si scioglie nei toni del rhythm and blues, del reggae e del pop. Così Milla si lascia andare e balla, balla felice come un’adolescente al suo primo amore. Se è la musica a sincronizzare i sentimenti, a esprimerli sono i colori. Colori pop che si sfaldano nei giochi di luci e ombre sui visi, colori saturi che rivestono i sentimenti di una storia d’amore. Colori che si richiamano e si rincorrono da una scena all’altra, rendendo tangibile una sintonia delicatissima e altrettanto potente. Tanto potente da tenere in vita una ragazza che potrebbe morire da un momento all’altro.

E così, un ventitreenne tossicodipendente cacciato di casa diventa indispensabile non solo per la malata terminale Milla, ma anche per Anna ed Henry, che a fatica lo accolgono in casa per stare al fianco della figlia, come un farmaco salvavita. Purtroppo è un placebo, perché una volta svanito l’effetto, il dolore ritorna. E a quel punto non resta che cercare il proprio angolo di cielo, e sorridere prima che il sorriso s’infranga in pianto.

Ridere e abbandonarsi alla vita, fin quando c’è.