Sconfini

Effetto Domino di Alessandro Rossetto

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Si torna a parlare di denaro, di investimenti e speculazioni, in questa 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia: dopo Laundromat di Steven Soderbergh, anche Effetto Domino di Alessandro Rossetto (presentato nella sezione Sconfini) affronta il tema, seppur con un risultato diametralmente opposto. Se il primo, infatti, portava sul grande schermo una black comedy, il regista italiano sceglie di mettere in scena una vera e propria tragedia classica. Tradizionale nella divisione in atti (più epilogo), e tradizionale nel lento discendere in una spirale negativa che, in chiusura, non potrà trovare alcuna risoluzione.

L’idea al centro del film, è infatti quella dell’edificazione di un impero – in una cittadina termale ormai semi-abbandonata e destinata allo spopolamento – fondato sulla vecchiaia, sulla morte e sull’illusione di sconfiggere quest’ultima. Quello che il geometra Gianni Colombo (Mirko Artuso) e l’imprenditore Franco Rampazzo (Diego Ribon) hanno in mente è demolire una serie di alberghi dismessi, con l’obiettivo di riconvertirli in futuristici e moderni appartamenti di lusso per anziani. Un progetto di successo, in un’Italia che – come le statistiche dimostrano e ribadiscono più volte nel film – sta invecchiando a vista d’occhio. Il mondo di domani, allora, è un mondo fatto di anziani, che pure – si dice – farebbero di tutto per comprare il sogno di una vita eterna, di una rigenerazione cellulare potenzialmente infinita, come quella della piccola medusa, simbolo dell’impresa. Ma il mare (che torna costantemente come metafora), dice la voce fuori campo che racconta il film – ancora una volta – come nella tragedia antica «oggi vuole solo yacht e crociere». Il mare è fatto per i ricchi, insomma, è fatto per chi ha i soldi. E il progetto di Colombo e Rampazzo che avrebbe dovuto garantire loro il successo e proiettarli verso una vita più agiata, diventa invece la via per il fallimento.

In un incessante discendere, il sogno si trasforma in incubo, accompagnato da quelle riprese che si fanno via via più strette, più ravvicinate ai personaggi. Il piano di una “città per anziani” è una danza in ralenti, ballata su musica ad archi; è campi larghi, spesso dall’alto; un “quadro d’insieme” idilliaco, che non può che svanire, lasciando spazio solo al dramma umano, alla singola, piccola tragedia. Un effetto domino, appunto, un primo fattore contrario che ne scatena decine e decine d’altri, sempre più gravi, sempre più laceranti. Dal ritiro dei fondi della banca investitrice tutto crolla, come le tessere del celebre gioco; tutto si spezza, famiglie, rapporti lavorativi (nell’accumulo di debiti, richieste di pagamento) e persino vite.

È una spirale di violenza che deve necessariamente trovare sfogo nella morte (anche in quel finale così aperto?). A vincere, allora, in questo mondo incentrato sul denaro e sul potere che anche Soderbergh così ben rappresenta, è sempre la volontà di chi possiede di più, del “pesce grosso”. Ma è anche e soprattutto un pregnante senso di indifferenza, di irresponsabilità: per tutto il film si parla di colpe, di vite altrui finite allo sbando senza che nessuno, mai, se ne preoccupi davvero. Ci si passa la palla, ci si accusa a vicenda, ci si urla contro e ci si picchia: si portano in campo soltanto i propri individuali egoismi. Uomini soli e concentrati solo su loro stessi che neppure la fede – più volte messa a contorno – riesce a salvare: in chiesa si va per fare affari, e le preghiere le si rivolge soltanto verso chi ha più potere (in termini economici) per aver salva la vita. Mentre una manciata di crocifissi, nell’ultima scena, viene scagliata a terra con violenza, levando ogni possibile spiraglio a coscienza e consapevolezza.