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La troisième guerre di Giovanni Aloi

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È la terza guerra, ma non è mondiale. È quella «dichiarata» dalla Francia al terrorismo, con le città che si riempiono di militari armati. Leo, un giovane militare, ha concluso l’addestramento e ha ricevuto il suo primo incarico: pattugliare le strade di Parigi, sorvegliare la città guardando e camminando. Come per il suo protagonista, allora, questo film è una ronda tra i quartieri di Parigi, un addestramento. Ogni cosa può essere sospetta, anzi ogni cosa deve essere sospetta per chi fa questo lavoro. Il fatto è che, alla fine, quasi nulla si rivela pericoloso.

La troisième guerre, esordio francese del regista italiano Giovanni Aloi, mette insieme una sfaccettata riflessione sui ruoli di potere all’interno della società contemporanea. Prima di tutto si parla di militari, tra i quali vige nonnismo, machismo e nepotismo. A questo si aggiunge il primo cortocircuito del racconto: il superiore di Leo è una donna. Nel frattempo il protagonista è sottoposto a una pressione di potere tipica delle forze armate: a nessuno importa dei suoi problemi, deve solo seguire gli ordini e omologarsi. Il mondo militare di La troisième guerre è resistente e strutturato, come la regia del film: ordinata, solida, ossessionata nel pedinare il protagonista, ma anche intenta, con un utilizzo primario di primi piani, a scrutare tutto ciò che nel soldato può restituire qualcosa di individuale, come le espressioni del volto lontane dalle divise identiche.

Un’altra questione di potere, più attuale e di cronaca, è quella del ruolo dei militari nelle città. Non tutto è di loro competenza: quando due soldati rincorrono uno spacciatore rovinano mesi di lavoro della polizia e pur vedendo borseggi o stupri non possono intervenire. Loro osservano e guardano, dubitano, e se qualcosa non riguarda sospetti di terrorismo non vengono presi in considerazione. Quanto è essenziale questo lavoro? Quanto veramente è influente sulla sicurezza dei cittadini? Queste sono alcune domande che una ragazza, di certo più antimilitarista, pone al protagonista con il quale poi finisce a letto (secondo cortocircuito).

La città, allora, diventa zona di guerra. Nel cinema contemporaneo lo è già diventata, sempre in Francia, con I miserabili, dove le banlieue e le periferie sono teatro di forti tensioni tra la comunità abitante e la polizia (anche in questo caso il punto di vista è quello del «nuovo arrivato» tra i poliziotti). La città come luogo di scontri, di folle, di proteste, di disordine e incomprensione. Ma qui ci si sposta in centro, nella metro e ai piedi di grandi palazzi. Allora il teatro urbano diventa anche luogo vuoto, nel quale rimbomba, oltre alla folla, l’incomprensione dell’individuo, del protagonista, in quanto militare, in quanto figlio, in quando adolescente in una condizione precaria che non può che sfociare in una instabilità mentale sempre più contemporanea (ultimo vero e attuale cortocircuito).

La troisième guerre, come il film danese Shorta, presentato alla Settimana internazionale della critica, e in Italia un film come Ultras, conferma la nascita di un nuovo cinema europeo urbano, incentrato sui quartieri, sulle folle, sulla musica elettronica, sui crimini e sulla polizia. Un cinema giovane, come i suoi registi e i suoi protagonisti, che parla di oggi, mostrando l’oggi. Dove la gioventù è condizione sofferta, precaria, teatro di tensioni intime scaturite da importanti conflitti urbani.