Fuori Concorso

The Humain Voice di Pedro Almodóvar

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Rosso, in tutte le sue variazioni, da quelle più squillanti alla gamma che dal porpora porta al viola. Ma anche azzurro vivo, nero, verde, oro, leopardato. Si accende di ogni colore e stile e memorabilia e vintage la versione almodovariana di La voix humaine, testo teatrale di Jean Cocteau del 1930, vera e propria pièce de résistance di mattatrici teatrali e cinematografiche, non solo francesi. Celeberrima la versione
Rossellini (il primo episodio di L’amore), dove Anna Magnani si dilania le vesti e i capelli chiusa nella sua stanza tra continue interruzioni della linea telefonica; cui fece eco quasi vent’anni dopo (nel 1966) la grande rivale nell’amore del regista: Ingrid Bergman, più nordica e compressa ma altrettanto “calda”, in un tv movie americano diretto da Ted Kotcheff.

In questa Voce umana, la protagonista acquista, oltre al proprio invidiabile guardaroba, alle suppellettili di casa e a un cane geniale e leale di nome Dash, lo spazio e il movimento garantito dalla tecnologia contemporanea. Infatti, quando arriva il momento della telefonata fatale, Tilda Swinton applica gli auricolari e comincia, oltre che a parlare, a muoversi tra le stanze arredate e il vuoto del teatro di posa all’interno del quale sono state costruite, in un ostinato svelamento della finzione cinematografica che non rende, però, meno coinvolgente il succo della vicenda: una donna nell’ultima telefonata con l’uomo che la sta lasciando. Anzi, che l’ha già lasciata. Ma prima sono successe molte cose: è andata in un negozio di ferramenta per comprare un’ascia, ci ha fatto scoprire l’hangar che incorpora l’appartamento, ha “ucciso” con l’ascia un elegante completo scuro maschile composto sul letto, ha rotto una serie di oggetti e ha preso una varietà di pillole. Dash la guarda, si sdraia insieme a lei ma ha gli occhi immalinconiti per la nostalgia del padrone. Il “padrone” di entrambi che, finalmente, telefona. E qui la voce di Tilda, che avevamo udito solo in poche battute off, comincia a srotolarsi insieme ai suoi movimenti e alla sua faccia triste, corrugata, accorata e sempre più arrabbiata.

Appassionata ma non passionale, una signora di oggi discendente diretta delle Donne sull’orlo di una crisi di nervi (che era una versione in commedia e a molte voci del medesimo testo), capace come loro di occuparsi del look anche nei momenti più tragici dell’esistenza, Swinton, con Almodóvar (che ha anche riscritta, accorciandola, la pièce), vendica tutte le malate d’amore lasciate, tradite, ingannate, quelle che restano lì a guardare le valigie fatte e ad aspettare il fatidico squillo. Non sarà un caso che, tra la marea di libri e dvd sparsi per la casa, tra Sirk e Fitzgerald e Dalì e Capote, spunti anche Kill Bill di Quentin Tarantino. Quanto dura un addio? Trenta minuti in tutto (ma la telefonata è più breve), durante i quali, una sola faccia, un solo set, un cane e molti colori sanno riassumere il significato ultimo di una storia d’amore (oggi come sempre, almeno per chi ama il mélo), ma anche dare un senso al cinema, ellittico, denso, autoironico, sontuoso.