Concorso

America Latina di Damiano e Fabio D'Innocenzo

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Proviamo a spostare la riflessione. E a evitare le secche tematiche della crisi dell'uomo e dello sbriciolamento del pensiero istituzionale. Mi pare che rispetto a La terra dell'abbastanza e Favolacce questo film alzi l'asticella estetica: finalmente l'iperformalismo di Damiano e Fabio D'Innocenzo si libera dell'argomento e trova il suo sfogo supremo. Perciò apriti cielo, i diffidenti della prima ora incontrano la conferma definitiva dei loro sospetti di malafede, mentre i difensori boccheggiano alla ricerca della sociologia.

Tuttavia la forza di America Latina sta proprio nel darsi nudo delle immagini. Che stavolta non si appoggiano a ragioni storiche, non lavorano di e sul reale (ohibò), ma cercano una loro sensibilità contemporanea che possa essere semplicemente e meravigliosamente cinematografica. Non dunque la compiacenza o l'eccessiva confidenza (non ci sarebbe niente di male, comunque, con buona pace dei grandi inquisitori della morale), piuttosto l'irrobustimento di uno stile che qui sbrocca e esplode. Grazie al cielo. Lo si capiva già prima che ai D'Innocenzo, a conti fatti, interessava questo, cioè la violenza delle linee, l'aggressività delle geometrie, la composizione figurativa dei luoghi in rapporto al soggetto. Ma se nelle due prove precedenti tutto ciò risultava soffocato dall'urgenza contenutistica, in America Latina non incontra più limiti.

La liberazione è decisiva. Tanto che in questa vicenda di un dentista (Elio Germano) che trova una ragazza legata in cantina, e che a poco a poco perde il contatto con la sua vita e i suoi affetti, o forse no, è un incubo, o forse ancora è la verità, chissà, in questa storia così polanskiana (del Polanski di L'inquilino del terzo piano) che sembra flirtare perfino con il torture porn, dove i rossi e i verdi della fotografia di Paolo Carnera evocano i rossi e i verdi del Tovoli di Suspiria, e nella quale la proporzione tra spazio e singolo è massicciamente a favore di quest'ultimo, perché i contorni si bruciano e non esistono, si confondono e spariscono, e dove il gotico femminile quale matriarcato fantasmatico sembra minacciare le certezze del maschio alfa come nel Siegel di La notte brava del soldato Jonathan e in numerosi altri gotici, ecco, in questa vicenda a contare per davvero sono i tagli e le rette, come nell'incredibile piano sequenza immobile (o quasi) fuori dalla finestra, con il protagonista di là dal vetro, in camera da letto, e una diagonale di riflesso della luce che recide l'inquadratura e che porta improvvisamente il film a ricordi antonioniani, ma dell'Antonioni fantascientifico e futurista di Identificazione di una donna; ed è proprio lì, in quei momenti, e ce ne sono altri, che capisci che lo spazio, come nel capolavoro del 1982, non definisce più niente – tantomeno la persona - ma è qualcosa che esiste-da-sé, come le immagini, per l'appunto, e quindi come il cinema, su cui i D'Innocenzo scommettono direi tutto, tutto, tutto.

E fanno bene, perché America Latina è una performance d'artista, e, se me lo concedete, una installazione. Poco? Per alcuni probabilmente sì. Vanitosa? Senza dubbio. Ma la vanità, nelle immagini, e nella contemporaneità, potrebbe anche salvarci dall'omologazione e dal tedio della medietà.