Fuori concorso

Dune di Denis Villeneuve

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L’idea senz’altro più indovinata di Villeneuve – insieme con gli altri sceneggiatori Jon Spaihts e Eric Roth – nell’adattare Dune è stata quella di dividere il film in due parti. Soprattutto per fini commerciali: è evidente infatti come la creazione di un universo Dune destinato a perdurare, ripetersi e riciclarsi per molto tempo fra cinema e televisione, come da progetto, sia un’idea azzeccata e redditizia. Tuttavia è proprio la natura stratificata, espansa e seriale del romanzo di Frank Herbert a richiedere un adattamento a episodi (cosa peraltro già fatta in passato per la televisione). E del resto all’origine del fiasco della disgraziata riduzione lynchana del 1984 ci fu proprio il problema della durata e dei relativi tagli che resero la trama quasi incomprensibile.

Ecco perché nelle due ore e mezza abbondanti di questa prima parte si arrivi soltanto poco più in là della metà del romanzo e di fatto la storia si interrompa praticamente ancora al suo inizio, in un punto cruciale e ben lontana dal raggiungimento del proprio acme. Al di là dell’effetto sorpresa – destinato a quei pochi spettatori ignari degli sviluppi narrativi della storia – è una scelta che recupera il senso epico del libro e evidenzia ulteriormente gli accenti omerici del film. Capofila e opera simbolo della fantascienza umanista-new age degli anni Sessanta, il romanzo di Herbert ha infatti una struttura epica inconfondibilmente modellata sui classici e la cosmogonia che descrive è alla base di tutto il cinema che dagli anni Settanta in poi si è occupato di fantascienza (da Star Wars in avanti).

Un’eredità e un sostrato complessissimi da gestire e – come dimostra il film di Lynch – quasi impossibili da trasporre per il grande schermo. Villeneuve tuttavia riesce in un’impresa davvero ardua: confezionare un film in grado di risolvere l’indecifrabilità della trama e allo stesso tempo far emergere con grande efficacia le due cose che si richiedono a un’opera come questa, e cioè una resa estetica stupefacente e la capacità di dare ai personaggi (e ai rapporti fra loro) carattere e complessità. Riuscendo cioè proprio laddove Dune 1984 falliva irrimediabilmente.

Non soltanto per merito di effetti speciali inimmaginabili sino a pochi anni fa, ma anche per la capacità del regista di creare attraverso essi un universo visivo affascinante, che ricalca solo in parte quello cromaticamente affine di Blade Runner 2049. Esteticamente Dune somiglia pochissimo alla fantascienza che conosciamo e costruisce invece una sorta di mondo nuovo che rimanda in maniera sconcertante alla nostra contemporaneità.

E lo fa quasi inconsapevolmente, verrebbe da aggiungere. Arrakis, il pianeta al centro della storia, detto appunto “Dune”, ricorda l’Afghanistan del 2021: una terra desertica in cui un contingente di occupanti se ne va, uno nuovo arriva e si combattono guerre con le popolazioni native per una “spezia” il cui controllo consente di tenere in scacco l’intera galassia. È chiaro come la metafora geopolitica e l’afflato umanista stessero già nel romanzo di Herbert, ma questo confronto così diretto e utilizzabile come chiave di lettura del film che il presente fornisce mette quasi i brividi.

La commistione fra il lirismo mitologico dei riferimenti classici, la sensibilità di Villeneuve nel costruire un universo estetico tanto evocativo e la capacità degli autori di coniugare la parte action a quella più filosofica della fantascienza, non sarebbe tanto efficace senza la solidità di un racconto capace di tenere le fila di una storia, come si diceva, tanto tortuosa e disordinata. Le molteplici trame e gli altrettanto numerosi personaggi, ma anche le lunghe introspezioni, le meditazioni e il misticismo cui il romanzo dà voce sono difficilissime da rendere al cinema.

Villeneuve ci riesce abbandonando la strada della voce off che esplicita i pensieri dei personaggi cui ricorreva Lynch ed evitando inutili e lunghe spiegazioni (come quella dell’imperatrice nel lungo incipit che Villeneuve sostituisce con una sola frase pronunciata dal personaggio di Chani). Ma affidandosi soprattutto alla struttura universale della storia e alla sua immediata intelligibilità – su un modello che potremmo definire scespiriano – anche a prescindere dai risvolti più oscuri del racconto. Ogni dettaglio, anche quelli di natura mistico-religiosa o sensoriali sono resi con fluidità e senza ampollose illustrazioni.

Il risultato è un film spudoratamente contemporaneo – cosa avvertibile già guardando il cast – ricco di sfumature politiche e capace di rileggere la fantascienza umanista-positivista di Herbert in chiave marcatamente più oscura. Suggerendo in filigrana un senso di allarme e sfiducia per il futuro. O almeno così ci è sembrato fin qui avendo visto solo la prima metà. Il resto promette bene, a patto che riesca a reggere il confronto con le smisurate ambizioni del proprio autore.